Benvenuti al confine più caldo di tutto il Mediterraneo, a quella che ormai è la frontiera diretta fra Israele e Iran. Appuntamento a mezzogiorno sul Mount Bental, al “Kofi Annan”, il caffè-ristorante che gli israeliani ironicamente hanno battezzato così in onore del segretario dell’Onu che riorganizzò Unifil, “la più inefficace delle forze Onu che si siano mai viste”. Dopo alcuni giorni di incontri a Tel Aviv, gli ufficiali delle IDF, le Israeli Defence Forces, ci offrono uno sguardo e un briefing da questo monte che sovrasta il confine con la Siria, qui nel Golan strappato da Israele ad Assad-padre nella guerra del 1973.
Il viaggio da Tel Aviv è lungo 3 ore in auto attraverso il Nord di Israele, la parte più esposta a questo nuovo “fronte di insicurezza”. Da Tel Aviv si sale fino a intercettare la statale 65, si continua fino alla 91, a Gadot si attraversa il Giordano, che da sempre è il confine naturale con la Siria, e si risalgono le alture del Golan, verdi e rigogliose come un Chianti del Medio Oriente.
“Ormai il fronte è una linea unica che parte dal confine con il Libano, lungo il quale sono già piazzati e nascosti migliaia di missili e razzi di Hezbollah”, dicono gli ufficiali. “Prosegue lungo tutto il confine siriano, sorvegliato da un’altra missione di osservatori Onu, che inevitabilmente saranno costretti a tirare la testa dentro i bunker il giorno che dovesse scoppiare una nuova guerra”. Nel Libano del Sud ormai Israele ritiene che quasi dentro ogni abitazione ci sia una postazione militare di Hezbollah: “Hanno nascosto lì dentro missili, razzi, officine, stazioni di collegamento radio, punti di spionaggio, depositi: poco alla volta, giorno dopo giorno è la creazione di un fronte di guerra assai rafforzato”.
E’ una giornata fresca, un anticipo di primavera con un vento che ha pulito il cielo e dal monte Bental permette di vedere a chilometri di distanza. Un colonnello di IDF, illustra il “panorama”. “Quella montagna a Ovest ricoperta di neve è il Monte Hermon, il picco che è in territorio israeliano: in cima c’è una nostra stazione d’osservazione elettronica. Più ad Est il monte sale, fino a 2.814 metri, è territorio siriano ma adesso la cima è in mano all’Onu, hanno una postazione che chiamano “Hotel Hermon”. Scendendo a valle, lungo il confine della “Alfa line” tracciata dall’Onu, ci sono una serie di paesi, città e villaggi. Adesso sono tutti in mano a gruppi di ribelli”. Il primo villaggio è Jubat al Khashab, controllato dai ribelli già dal 2012; Ancora più ad Est c’è Khan Arnaneb, e avvicinandosi alla Alfa line, verso le linee israeliane, c’è la vecchia cittadina di Quneitra, che fu devastata e poi abbandonata con la guerra del 1973.
IDF spiega che “lungo tutto il confine siriano ci sono una cinquantina di gruppi di ribelli “moderati”, ma immediatamente dietro, anche a 10-20 chilometri dal confine, ci sono le postazioni di Hezbollah e dei pasdaran iraniani. Per esempio quella collina con due gobbe in fondo ad Est la chiamiamo “l’elefante che dorme”: c’era sempre stata una postazione per la raccolta di SIGINT dei siriani, la signal intelligence con cui controllano i segnali emessi dai nostri apparati. Da qualche mese abbiamo iniziato a sentirli parlare iraniano, non ci sono più i soldati di Assad, ma i pasdaran del generale Qassem Suleiman (il generale iraniano che coordina le operazioni all’estero dei pasdaran, ndr)”.
“Non è vero che non è cambiato niente quando il 10 febbraio hanno abbattuto l’F16: perdere un aereo, anche se è il primo dopo 30 anni, è duro ma non è una tragedia militare. Eppure per noi è stato un segnale d’allarme serio, e infatti ci stiamo lavorando”. I militari di IDF non lo ammetterebbero mai, ma certo perdere un F16 è stato un colpo pesante, soprattutto per la deterrenza nella superiorità aerea che Israele si è conquistato nella regione. Dal 10 febbraio a Tel Aviv si sono messi a studiare, ragionare, decrittare. “Abbiamo ricostruito lo scontro: dopo le 4 del mattino un drone iraniano si alza dalla base T4 vicino Palmira, ben dentro la Siria. Non punta diretto verso di noi, vola lungo il confine giordano, quasi per allontanarsi, poi entra in Israele dalla valle di Beit Shean. Novanta secondi più tardi viene abbattuto da un nostro elicottero. Partono gli F16 per la ritorsione, colpiamo non solo il camion-lanciatore da cui era partito il drone, ma anche le installazioni della base, e poi allarghiamo la ritorsione a 8 obiettivi siriani e 4 iraniani. Rientrando verso Israele, il nostro F16 rimane per troppo tempo ad alta quota, per controllare gli effetti dell’attacco a Palmira. Per la prima volta da 30 anni, la contraerea siriana lancia 20 missili contemporaneamente, quasi a saturare l’area in cui volavano i nostri arei. Uno l’hanno abbattuto”.
A Tel Aviv Sima Shine, una analista di un centro studi che è stata vicedirettore del Mossad, giorni fa ragionava su alcuni elementi “politici”: “Se gli iraniani hanno deciso di fare questa mossa, di venire a testarci, a provare le nostre difese, c’è stata sicuramente una decisione politica, avallata a Teheran. Non credo bastino i comandanti in Siria, forse neppure lo stesso Qassem Suleiman. E allora: cosa sapevano Rouhani, il ministro degli esteri Zarif? Perché questo è un colpo anche alla loro credibilità internazionale. Quando Netanyahu a Monaco ha fatto il suo discorso e ha fatto vedere il prezzo del drone iraniano a voi magari è sembrata una buffonata, ma abbiamo fatto vedere al mondo cosa ha fatto l’Iran qui da noi, a 2000 chilometri da casa sua”.
Su una cartina molto dettagliata, IDF ha indicato le decine di installazioni piccole e grandi che ormai l’Iran gestisce direttamente in Siria. “La mappa che ha pubblicato il New York Times è molto realistica, e a questo dobbiamo aggiungere le installazioni, le basi, le caserme di Hezbollah e delle altre milizie sciite che h anno schierato in Siria”. Per difendere Bashar el Assad, l’Iran infatti ha mobilitato una efficiente “legione straniera” fatta di milizie arruolate fra gli sciiti innanzitutto di Iraq, fra i rifugiati in Iran. “Una delle brigate più attive è Fatemiyoun, sono rifugiati afgani in Iran, nati e cresciuti in Iran, arruolati assieme ad altri profughi a cui viene promesso un visto permanente per rimanere in Iran. Dal settembre 2013 sono almeno 600 i combattenti sciiti afgani morti in Siria, carne da cannone adoperata per risparmiare le vite dei pasdaran iraniani”. Poi ci sono gli “Hidarion”, sciiti dell’Iraq, gli “Zenabion” dal Pakistan, i “Patamion” direttamente dall’Afghanistan. E’ una internazionale sciita che è venuta a combattere alle nostre porte”.
Solo studiare il modo in cui l’Iran ha mobilitato questa legione sciita da mezzo Medio Oriente sarebbe interessantissimo, e utile per capire i timori, se non il terrore di Israele. Ma proprio ieri il capo dell’esercito di terra di IDF, il generale Kobi Barak, ha fatto un discorso rivolto ai nemici sciti “tradizionali” di Hezbollah: “Una nuova guerra contro Hezbollah? Questa volta sarebbe più rapida, più veloce, andremmo più a fondo e per questo ci stiamo strutturando. Quale sarà il segnale della vittoria? Credo che dovremo uccidere Nasrallah, il capo di Hezbollah”.
Sulle alture del Golan, nella pace apparente di queste colline sospese sull’orlo di un inferno, l’unico pensiero che conta è come fermare i tamburi della guerra. Chi può farlo, come farlo? Come evitare che Iran e Israele, le due superpotenze del Medio Oriente, vadano alla devastazione finale?