Strage di Bologna, l’ultima verità I mandanti: Gelli e i servizi deviati

di Giuseppe Baldessarro e Rosario Di Raimondo
BOLOGNA — Licio Gelli, capo della P2, finanziò la strage di Bologna: secondo gli investigatori, dai suoi conti partirono due milioni e mezzo di dollari verso le casse dell’eversione nera. Federico Umberto D’Amato, per vent’anni responsabile dell’ufficio Affari riservati del Viminale, un uomo dello Stato, ebbe invece il ruolo di «organizzatore» dell’attentato più sanguinoso della storia della Repubblica, l’esplosione della bomba nella sala d’aspetto della stazione che il 2 agosto 1980 causò 85 morti e 200 feriti. Quarant’anni dopo si apre un nuovo squarcio di verità. Spuntano quattro nomi delle menti dell’eccidio. I mandanti. Che sono tutti morti ma possono dire ancora tanto. Mentre altre quattro persone – estremisti neri, ex dei Servizi e dei carabinieri, faccendieri – vanno verso un nuovo processo, accusati di concorso nella strage e di depistaggio.
A questo ha portato l’indagine della Procura generale di Bologna, guidata da Ignazio De Francisci, che dall’ottobre del 2017 scava sul capitolo più oscuro della strage di Bologna: quello degli ideatori dell’attentato. La loro individuazione fa dire ad Andrea Speranzoni, avvocato che assieme al suo pool di legali segue i famigliari delle vittime della strage, che «questo processo può veramente cambiare la storia del Paese ». C’è una «manovalanza fascista », ovvero gli esecutori della strage (per la quale sono stati già condannati Mambro, Fioravanti, Ciavardini e Cavallini), «e poi un ombrello di mandanti, un po’ della P2 e un po’ degli apparati dello Stato che non depistano le indagini ma sono mandanti, pagatori e organizzatori».
A capo di tutto Licio Gelli, il «finanziatore » della strage, già condannato per depistaggio: due milioni e mezzo di dollari provenienti dal crac Ambrosiano sono passati sui conti correnti svizzeri del “venerabile” per arrivare nelle casse dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari). Gli indizi sono in un’informativa della Guardia di Finanza, che ha ricostruito i flussi finanziari piduisti a partire dal “documento Bologna”: un pizzino scritto a mano trovato durante una perquisizione a Gelli. Nell’inchiesta dei sostituti procuratori generali Nicola Proto e Umberto Palma e dall’avvocato generale Alberto Candi, che hanno coordinato il lavoro di Gdf, Ros e Digos, sono finiti altri mandanti. Umberto Ortolani, ritenuta la “mente” della P2, anche lui finanziatore, condannato per il crac dell’Ambrosiano. Federico Umberto D’Amato, ex potente prefetto, spia di primo livello, per anni ai vertici del Viminale, fu un «organizzatore». E il giornalista Mario Tedeschi, già senatore Msi, direttore de Il Borghese , avrebbe partecipato alla «gestione mediatica della strage». Tutti piduisti.
Loro sono morti ma c’è chi può ancora parlare. Sono i quattro uomini che vanno verso il processo dopo le notifiche di fine indagine della Procura generale. A partire da Paolo Bellini. Ex di Avanguardia nazionale, coinvolto in una lunga scia di omicidi, collegato alla ‘ndrangheta, legato alla trattativa Stato-mafia. Accusato a 66 anni di essere uno degli esecutori materiali in concorso con i mandanti. «Si è sempre proclamato innocente», dice il suo avvocato Manfredo Fiormonti. Era stato prosciolto da ogni accusa ma un vecchio filmato del 2 agosto 1980, girato in stazione nei momenti della strage, lo inquadra. Quel viso sembra essere il suo. E ancora, c’è Quintino Spella, 91 anni tra pochi giorni, ex capo del Sisde di Padova, indagato per depistaggio: nel 1980 un magistrato gli rivelò le frasi di un detenuto su un attentato con una bomba «di cui avrebbero parlato i giornali di tutto il mondo». Spella ha negato quegli incontri. Di depistaggio dovrà rispondere l’ex carabiniere del nucleo informativo di Genova Piergiorgio Segatel, 72 anni. Nega di aver incontrato la moglie dell’esponente di Ordine Nuovo Mauro Meli, alla quale il militare disse «che la destra stava preparando qualcosa di veramente grosso». Domenico Catracchia dovrà rispondere di false informazioni ai pm. Era l’amministratore di un condominio in via Gradoli, la strada romana del covo delle Br durante il sequestro Aldo Moro. I magistrati lo indagano per la sua reticenza.
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