Col senno di poi, vediamo in quello sguardo fermo, immacolato, inflessibile, il ragazzo che ha colto tutti gli estremi, che ha forgiato verbi come zattere, per poi distruggerli. 1866: nella fotografia della comunione, Arthur Rimbaud è seduto su una sedia, la giacca ha il collo aperto, la mano sinistra poggia su un vangelo, la destra è chiusa, a pugno, sulla gamba. L’equilibrio del ragazzo – le gambe, canoniche, ad esempio; la postura pari a una basilica – rende difficile intuirne lo slancio, la fuga. Sul braccio, qualcuno ha legato a Rimbaud una benda bianca, segno della comunione. È lo stesso segno che spicca sul braccio del ragazzo che gli è di fianco: in piedi, appena scostato, la mano destra sul petto, stessa scriminatura dei capelli, lo sguardo più perplesso, frantumato, forse. Chissà il fotografo cosa avrà pensato, maneggiando quei ragazzini, non diversi da troppi altri. Immagino, piuttosto, la felicità severa della madre, Catherine Vitalie Cuif, già quarantenne: l’epistolario con la figlia Isabelle, molti anni dopo, è un continuo censimento di funerali e di messe, “Ci sono creature predestinate a tutte le sofferenze della vita: sono una di loro”, scriverà, sul crinale del secolo, nel 1900. Morirà nel 1907, Madame Rimbaud, in perfetta adorazione del figlio ribelle. “La tomba di famiglia è fatta, e fatta bene… il mio posto è pronto, in mezzo ai miei cari scomparsi; la mia bara sarà deposta fra il mio buon padre e la cara Vitalie alla mia destra, e il povero Arthur alla mia sinistra”, scrive, è il giugno del 1900, dalla consueta, paludosa Charleville.
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“La cara Vitalie”, nata nel 1858, non era bella, aveva una faccia elfica, era sottile tutta, “con gli occhi azzurri del fratello Arthur”. Cresciuta dalle suore, morì giovane, Vitalie, a 17 anni, di sinovite tubercolare. Amava scrivere, pensieri privati, qualche poesia: il fratello Arthur, era il tardo dicembre del 1875, partecipò al funerale con la testa rasata. Dopo che il padre, militare decorato con la Legion d’onore, aveva abbandonato la famiglia, dal 1860, era Madame Rimbaud a tenere i fili di una famiglia scorticata. Victorine, nata nel 1857, era morta neonata, dopo un mese; Isabelle, la più piccola, nata nel 1860, si incaricherà dell’eredità letteraria di Arthur, dettandone l’agiografia, facendo di lui “un santo, un martire, un eletto” (così scrive il 12 ottobre 1896 a Paterne Berrichon).
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Resta, appunto, fuori dai confini di questa sconfitta, scandagliata, ‘sacra’ famiglia, i Rimbaud, quel ragazzo fotografato al fianco di Arthur, il giorno della sua prima comunione. Si chiama Frédéric, è nato un anno prima di Arthur, il 2 novembre del 1853, il primogenito dei Rimbaud, ed è destinato, pur vivendo più della madre, del fratello, a scomparire. “In quella fotografia Arthur ha undici anni, Frédéric dodici. I ragazzi hanno fatto appena ingresso al collegio di Charleville. Frédéric Rimbaud è un personaggio sconosciuto ai biografi e ai tanti esegeti del poeta. Ho avuto come il presentimento che ci fosse qualcosa di terribile nella vita di quell’uomo, qualcosa che meritasse di essere raccontato, qualcosa che andava al di là di una semplice buona storia”, scrive David Le Bailly per giustificare il romanzo biografico L’autre Rimbaud. La tesi è interessante: Arthur, genio inafferrabile della poesia (e tanto ci basta), non è l’autentico ribelle della famiglia Rimbaud. Basta leggere le lettere alla famiglia dai recessi d’Africa: con alto rispetto (“Cari amici…”; “Cara mamma, cara sorella…”) Rimbaud si lagna (“La mia esistenza è penosa, abbreviata da un tedio fatale e da fatiche d’ogni genere”), si giustifica (“Il mio comportamento qui, credetelo, è irreprensibile”), chiede soldi, dà di conto. In ogni caso, è l’angelo amatissimo. Frédéric, invece, è il figlio disgraziato, screanzato, screziato dall’audacia e dall’idiozia. Mamma Vitalie arriverà a cancellare alcune fotografie in cui Frédéric è al fianco di Arthur. “Fino ai 15 anni i due fratelli sono stati molto vicini, confidenti, quasi. Poi, all’improvviso, si sono lasciati, se ne sono andati. A causa della madre…”.
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Il problema di Frédéric è che, fin nel nome, è fin troppo simile al padre. A 17 anni va via di casa – presto imitato dal fratello Arthur. Frédéric, però, non sogna l’eccesso lirico: come il padre, si arruola nell’esercito. Viene spedito in Algeria, militare presso una prigione. Non funziona. Forse non ha la stoffa per la guerra né per il cameratismo nei ranghi dell’esercito: è afflitto dal morbo della solitudine. Lo spediscono in Francia. Beve. Si perde. Trova lavoro come autista di carri e carrozze. Trova una donna, Blanche Rosa Maria Justin, e la sposa, nel 1885. Lei ha diciannove anni, è bella, fa l’operaia. Mamma Rimbaud si oppone al matrimonio, “a quel tempo un figlio non poteva sposarsi senza il consenso dei genitori. Gli archivi del tribunale francese narrano di una causa intentata da Frédéric: in cassazione vincerà la madre”. Mamma Rimbaud non poteva sopportare la screanzata povertà del primogenito, Arthur, dall’Africa, è con lei: “Non mi sorprende che Frédéric sia un idiota, lo abbiamo sempre saputo e abbiamo sempre ammirato la durezza della sua zucca”. Nel 1895 il matrimonio tra Frédéric e Blanche è rotto, legalmente e fisicamente. Dalla moglie, Frédéric ha tre figli, Marie Émilie, Léon, Blanche Nelly. Mamma Rimbaud ritiene il figlio incapace di crescere i figli, glieli sottrae, manda i nipoti in collegio. Frédéric è l’altro lato di Rimbaud, l’angelo capovolto, dal destino nero: un omnibus gli sgretola gamba e femore. Muore in ospedale, il fratello di Arthur Rimbaud, solo, il 2 luglio del 1911, a 57 anni. Isabelle, in un atto di schifiltosa carità, gli aveva chiesto se volesse essere sepolto nella cappella di famiglia, vicino ad Arthur. “Mi avete ferito troppo in vita perché stia al vostro fianco da morto”, risponde lui. Sembra la vicenda caustica e devota di uno di quei film di Krzysztof Kieślowski.
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“I discendenti che ho consultato durante le indagini sono concordi: nessuno ricorda davvero Frédéric. Qualcuno, vagamente. Questa indagine nei gangli dell’oblio presenta una analisi affascinante tra i fratelli: il mito eterno di Abele e Caino (o la storia del figliol prodigo?) si muta in una maledizione, di cui Frédéric fa la parte del reietto. Questo altro Rimbaud racconta in filigrana l’Altro che fu Io. Al figliol prodigo siamo propensi a perdonare tutto; Frédéric conserva il marchio della disgrazia, il sigillo dei dannati” (David Le Bailly).
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La vita di Arthur è come un cono, una spirale, un irradiamento in fuga. Prima di lui, è scappato di casa il padre, poi il fratello. Entrambi si chiamavano Frédéric. C’era anche la storia dello zio paterno, Jean Charles Félix Cuif, che agiva nel sangue di Arthur. Una storia oscura, taciuta. Lo zio era scappato dalla provincia francese per l’Africa. Vi era stato, lì, senza dare notizie di sé, per quattordici anni. Poi era tornato in Francia, senza dire nulla a nessuno. Si era installato nella fattoria di famiglia. Dove morì, un anno dopo, nel 1856. Dicono rischiasse la galera, avesse compiuto qualche efferatezza, per questo aveva scelto l’Africa. Anche lui, lo zio, era scappato di casa a 17 anni. Ogni pena ha il suo ritorno, il perdono è piombo, la poesia, infine, è una fuga sfrenata, una mappa, una città celeste. (d.b.)