STATI UNITI, COSA C’È DIETRO L’ANGOLO

di Sergio Fabbrini

 

Nessuna elezione nazionale ha mai attirato l’attenzione del mondo intero come quella americana di martedì scorso. Nonostante le sue difficoltà, la vicenda interna dell’America continua ad essere al centro del sistema internazionale. Per questo motivo, occorre capire ciò che sta avvenendo e, soprattutto, cosa potrà avvenire nell’altra sponda dell’Atlantico dopo la sofferta vittoria di Joe Biden. Il mio argomento è che la polarizzazione della società americana è stata positivamente incanalata attraverso le elezioni, ma il sistema elettorale-partitico è destinato ad alimentarla. Una brutta notizia per l’Europa. Mi spiego. Pur in presenza di una pandemia che ha ucciso (per ora) 237 mila persone, ben 160 milioni di americani hanno votato martedì scorso (ai seggi, con voto anticipato o attraverso il voto postale). Essi rappresentano il 67 per cento degli elettori potenziali (eligible voters), una percentuale mai raggiunta negli ultimi 120 anni. Secondo gli osservatori dell’OSCE, che hanno monitorato la partecipazione elettorale, non si sono verificati casi di brogli, inefficienze o disordini. Secondo Lawrence Norden e Derek Tisler (su Foreign Affairs), gli stati e le contee si sono organizzati adeguatamente per prevenire affollamenti ai seggi, che avrebbero minacciato la salute pubblica. Non vi sono evidenze di intromissioni di “soggetti stranieri” nel processo elettorale, né di hackeraggi che abbiano avuto successo. Il ritardo nella comunicazione dei risultati è dovuto ai diversi regolamenti statali per il conteggio dei voti anticipati o per posta. I risultati elettorali in Michigan, Pennsylvania o Nevada sono giunti tardi perché i loro legislativi statali avevano proibito quel conteggio prima della chiusura dei seggi (mentre la Florida, ad esempio, aveva deciso diversamente). Comunque, tale enorme partecipazione è una testimonianza della polarizzazione politica dell’elettorato americano. Una polarizzazione che la democrazia americana, pur all’interno dei vincoli di un federalismo elettorale decentralizzato, è riuscita ad incanalare con successo. Nello stesso tempo, però, quel federalismo elettorale decentralizzato è destinato ad istituzionalizzare la polarizzazione che ha saputo incanalare. La polarizzazione si è istituzionalizzata non solo nelle elezioni presidenziali (dove i collegi elettorali di stato sovrarappresentano gli stati meno popolosi e rurali generalmente repubblicani, radicalizzando a contrario gli elettori degli stati democratici delle coste), ma anche nelle elezioni congressuali. Nel Senato, gli stati a controllo repubblicano hanno un potere di veto che è imbattibile da parte di qualsiasi presidente democratico. Alla Camera, sebbene i democratici abbiano una base elettorale potenziale più ampia, i repubblicani possono controllare il disegno della maggioranza dei distretti elettorali. In America, ogni dieci anni viene compiuto un censimento della popolazione degli stati, sulla base del quale i legislativi degli stati possono poi ridisegnare i distretti elettorali per l’elezione dei rappresentanti, di quello stato, alla Camera federale. Il partito che ha la maggioranza di quei legislativi può dunque disegnarli a suo favore (attraverso il cosiddetto gerrymandering), penalizzando il partito in minoranza. I repubblicani, che controllavano la maggioranza dei legislativi statali già nel 2010, hanno incrementato la loro maggioranza nelle elezioni statali di martedì scorso. Dopo queste ultime, controllano entrambe le camere dei legislativi statali in 29 stati (mentre i democratici in 18 stati, gli altri 3 legislativi hanno maggioranze divise). Inoltre, tra i governatori statali, 27 sono repubblicani e 23 democratici (i governatori hanno il potere di veto sul disegno dei distretti). Il censimento del 2020 consentirà dunque ai repubblicani, l’anno prossimo, di ridisegnare i distretti elettorali in modo da penalizzare i loro avversari. I democratici, per tutto il prossimo decennio, avranno pertanto difficoltà ad allargare la loro maggioranza alla Camera. La formazione di maggioranze trasversali sarà improbabile. Lo scontro tra i due partiti è destinato ad accentuarsi. Come se non bastasse, è ipotizzabile che si accentuerà anche lo scontro all’interno di ognuno dei due partiti. Anche se è vero che Trump, nonostante la vittoria di Biden, ha ottenuto più voti popolari di qualsiasi presidente repubblicano prima di lui (intorno a 70 milioni di persone l’hanno votato), nondimeno ciò non sarà sufficiente per tenere sotto controllo la guerra civile che è in corso da tempo all’interno dei repubblicani. Almeno dalle elezioni congressuali del 1994, il partito repubblicano è stato conquistato da una componente radicale (allora guidata da Newt Gingrich) che ha messo ai margini la sua componente moderata (dei Bush o dei McCain). Trump ha portato alle estreme conseguenze questo progetto, antagonizzando buona parte degli establishments conservatori (che si sono dovuti collocare all’esterno del partito). Dopo la sconfitta di Trump, e la vittoria di diversi repubblicani non-trumpiani negli stati, il conflitto tra le due componenti si riaccenderà inevitabilmente. Ma anche il partito democratico è destinato a surriscaldarsi. Certamente, il centrismo di Biden e la paura di Trump hanno, per ora, messo il silenziatore all’estrema babele dei gruppi che lo costituiscono. Tuttavia, nel contesto di un conflitto interistituzionale e di una presidenza Biden per-un-solo-mandato, le divisioni tra quei gruppi riemergeranno, soprattutto per stabilire quale candidato dovrà rappresentare il partito nel 2024. La tempesta è dietro l’angolo. Insomma, l’America, nonostante continui ad essere un grande esperimento democratico, rimane “a house divided against itself” (un Paese diviso contro sé stesso, per dirla con le parole di Abraham Lincoln del 1858). Un Paese diviso non potrà prendere decisioni chiare nei campi cruciali della politica economica e della politica estera. Una brutta notizia per l’Europa. Quest’ultima dovrà difendere l’alleanza e la collaborazione con un’America divisa, ma dovrà sviluppare, contemporaneamente, una sua autonomia strategica da essa. Solamente così si preserveranno le basi dell’indispensabile alleanza transatlantica. Un’America divisa abbisogna di un’Europa unita.

 

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