Può sembrare a qualcuno trascurabile, se non fuorviante, approfondire oggi il significato della parola periferia. Già il lessico dell’urbanistica l’ha del tutto sostituito con altri: «città diffusa», «territori a bassa densità», «periurbanizzazione», eccetera, lasciando purtroppo ai media e alla politica, farne uso nei loro scombinati discorsi.
Hanno, tuttavia, buone ragioni Gennaro Avallone e Marianna Ragone a richiamare l’argomento con il loro agile saggio Le periferie non sono eccezioni (bordeaux edizioni, pp. 110, euro 10) perché di là della scontata connotazione negativa causata dalle difficili condizioni sociali di chi la periferia l’abita, questa possiede una sua rispettabile singolarità concettuale e di ricerca. Lo dimostra innanzitutto la collana nel quale è inserito il loro saggio.
Con il nome «Lezioni», infatti, l’editore romano bordeaux dal 2020 pubblica i contributi teorici di vari autori su questo specifico tema. Collegata allo spazio fondato a Roma da Giorgio de Finis, «RIF-Museo delle Periferie» (www.museodelleperiferie.it), la collana come il museo mirano ad «approfondire la conoscenza delle metropoli del terzo millennio» con particolare attenzione alle periferie e seguendo un approccio interdisciplinare. Avallone e Ragone si inseriscono, quindi, nel dibattito che – soprattutto nella capitale – intende rimediare alle storture derivanti da una sciagurata politica di urbanizzazione delle aree a corona del centro storico.
LA LORO ANALISI, però, interessa aspetti più generali che non concernono solo Roma, ma molte altre città come Napoli, Potenza, Genova o Catania, tutte accomunate da un’espansione urbana dov’è venuta meno l’attuazione dei principi dell’«urbanistica razionalista» e dove l’interesse pubblico s’è dovuto misurare con l’ingerenza di quello del privato dedito esclusivamente ad accrescere la rendita. Una situazione aggravatasi sempre più negli anni con gli eccessi visibili ora, ad esempio, nelle aree centrali e periurbane milanesi. Superfluo dire dell’ingenuità di chi esperto dei fenomeni urbani, pensava di contrastarli.
Nei primi capitoli del libro si dà un severo giudizio della nostra pianificazione urbanistica con le sue tecniche, regole e processi che si riassume nella domanda: «Perché le aree urbane costruite dalle istituzioni pubbliche portano spesso con sé segni negativi?» Individuarne le cause nei soli limiti disciplinari delle teorie della modernità, in quanto inadatte a risolvere quelle che Edoardo Salzano chiamava le «questioni tradizionali» dell’abitare e del vivere quotidiano tra lavoro e tempo libero, non può prescindere dal fatto che è decaduto quel progetto di «nuova società» riferita alle utopie della cultura occidentale dei due secoli scorsi.
Preso atto della fine della città moderna con i suoi contenuti di proposte sperimentali e radicali, non è rimasta sulla scena che una sua contraddittoria traduzione che Vallone e Aragone spiegano sulla scorta delle tesi di Lefebvre e Harvey o delle più recenti analisi di Roy e Wacquant.
È VERO che ciò che è pervenuto a noi e diffuso nei decenni Settanta-Ottanta nelle aree rurali più prossime al centro sono i «grandi blocchi monofunzionali costruiti con materiali prefabbricati e di scarsa qualità edilizia» senza alcun pensiero sugli «aspetti sociali e simbolici propri dell’abitare». È altrettanto vero, però, che non si spiega tutto con la crisi delle discipline.
Si pongono davanti a noi «questioni nuove» (ambiente, sostenibilità, eccetera) alle quali urbanisti e architetti restano afoni perché in gran parte il loro agire è subalterno alle logiche finanziarie dei mercati globalizzati. Anche le forme che sembrano più avanzate per produrre qualità per gli agglomerati di edilizia sociale (vedi il partenariato pubblico-privato del Fondo Housing Sociale) mostrano tutte i loro limiti per governance e soluzioni spaziali per l’abitare.
IL CONTRIBUTO, però, più rilevante del saggio, dopo una sintetica ricognizione su definizione e storia della periferia italiana, investe l’attualità e riguarda le «questione della perifericità». La combinazione di diversi elementi quali, insicurezza, violenza e degrado ha definito, almeno da un trentennio, i veri attributi della periferia nell’«immaginario sociale» con la conseguente spettacolarizzazione dei luoghi e delle persone che l’abitano.
Sul loro grado di «inciviltà» si sono spesi infiniti racconti giornalistici e se n’è occupata con mistificante impegno la politica che ritarda ancora l’emanazione di una seria riforma urbanistica e programmi di investimento adeguati a risolvere il disagio abitativo che ormai ha assunto proporzioni gravi e tra le più rilevanti in Europa.
La riflessione critica alla quale ci invita la lettura del saggio deve essere accolta come sintesi efficace perché si arrivi presto a formulare proposte organiche d’intervento partecipate dal basso.
Arrestare e invertire la tendenza all’abbandono della periferia è il compito urgente di tutti e non più rimandabile.