Si resta non meno intimiditi che ammirati dinanzi all’estensione, alla versatilità fantastica e soprattutto alla ricchezza e potenza narrativa dell’opera di Joyce Carol Oates (1938), probabilmente la più grande scrittrice vivente, già coperta di premi (non però del Nobel, che meriterebbe senza discussione), ma forse insufficientemente letta in Italia, benché molti suoi libri siano stati tradotti da vari editori (il Saggiatore, Rizzoli, Mondadori, Edizioni e/o, Anabasi, Marco Tropea, Net, Bompiani).
Oggi ottantenne, la scrittrice è stata immersa fin da giovane nella contemporaneità americana, romanzandone superbamente anche fatti e figure: tra l’altro, la vita di Marilyn Monroe (Blonde, Bompiani, 2001) e l’incidente di Ted Kennedy nel Maine (Acqua nera, Anabasi, 1993; il Saggiatore, 2012).
Si legge che la Oates abbia scritto più di quaranta romanzi, alcuni dei quali pubblicati sotto pseudonimo, circa settecento racconti distribuiti in una trentina di raccolte, una decina di opere teatrali e poetiche, sedici volumi di saggi, libri per giovani e per bambini: questa signora americana, un po’ ossuta, dall’incarnato pallido, dai grandi occhi, il sorriso mite, il profilo affilato e fragile, quale appare nelle fotografie, nasconde evidentemente un’energia strabiliante e inconsumabile, che non può non evocare per analogia il caso clamoroso di un Simenon.
Dopo il vasto e spietato affresco sociale e morale che la Oates ha dedicato all’America in una tetralogia di oltre duemila pagine intitolata Epopea americana (Il giardino delle delizie, I ricchi, Loro, Il paese delle meraviglie), il Saggiatore pubblica la sua più recente raccolta narrativa, uscita nel 2016, Il collezionista di bambole, nella buona traduzione di Stefania Perosin.
Si tratta di sei racconti neri. Sarebbe esatto, ma parziale, dire che il «gotico» è un genere in cui la Oates eccelle, perché tutta la sua opera rivela una percezione allarmata e allarmante della realtà in sé, che volge irreprimibilmente al nero. La violenza e il male di un’umanità degenerata, e non solo dell’America (che comunque assume un ruolo insieme reale e simbolico), sembrano essere il centro irradiante della sua visione.
Il primo racconto, eponimo del libro, si inserisce nella tradizione letteraria del doppio. Il protagonista, un bambino cosiddetto difficile, in realtà un puro schizofrenico, fin dalla più tenera età risarcisce la perdita di una cuginetta rubando la sua bambola e, via via che cresce fino alla giovinezza, comandato dalla presenza di un Amico invisibile, ne colleziona altre, finché la madre scoprirà un’orrenda verità…
Negli altri racconti, tutti di prim’ordine, il terrore assume configurazioni diverse, innestandosi nel contesto del sospetto e dell’odio razziale (Soldato), della drogata violenza giovanile (Incidente con arma da fuoco. Un’indagine), della macchinazione omicida di un libraio invidioso di un collega rivale (Mystery, Inc.). Ma in due casi almeno si raggiungono esiti da capolavoro.
Equatoriale potrebbe essere posto all’altezza della Breve vita felice di Francis Macomber di Ernest Hemingway. Durante una crociera alle Galapagos col marito neurobiologo una candida ereditiera oscilla tormentosamente tra l’amore devoto e il dubbio tenace, suffragato da incidenti ricorrenti, che il consorte, uomo premuroso ma infido, sospettato anche di una relazione segreta, tenti di ucciderla. Nell’ambiente, insieme incantato e minaccioso delle arcaiche isole tropicali, dove la vita divora la vita, la donna apprende e soffre per la prima volta tutta la precarietà della sua esistenza, fino all’incubo finale.
L’acme dell’orrore si tocca tuttavia in Grande Madre, che si immaginerebbe bene anche come una delle storie di Musica per camaleonti di Truman Capote. Una tredicenne in conflitto con la madre single (spesso gli adolescenti protagonisti della narrativa della Oates sono in situazioni analoghe) accetta le attenzioni benigne, affettuose e carezzevoli del padre di un’amichetta, un lavoratore rassicurante dal quale prima riceve occasionali passaggi in macchina al ritorno da scuola e alla fine viene «adottata», tanto da vivere più con la sua numerosa famiglia che a casa.
La vita della ragazzina si svolge all’insegna di una ritrovata armonia, in un clima di domestica e allegra solidarietà. Tutto è normale e anzi incoraggiante: solo giungono ogni tanto notizie di animali spariti e di bambine scomparse.
Ma la casa cela nella sua parte più riposta una terrorizzante presenza: la gabbia di un pitone reticolato, chiamato Grande Madre, venerato dalla famiglia come un idolo primigenio e nutrito amorosamente di carne non solo animale, tanto che la bambina, in parte persuasa e in parte drogata, finirà in pasto al rettile quale speciale vittima sacrificale: un racconto da far accapponare la pelle e togliere il sonno.
Grande, crudele Oates.