Nel centrodestra
di Antonio Polito
Il centrodestra ha una doppia vita. Nei sondaggi vince sempre, nelle urne non più. Per questo la strategia della spallata, il colpo di maglio che avrebbe dovuto spazzare via il governo e aprire la strada a elezioni anticipate, può dirsi esaurita: la conquista delle Marche non è bastata.
Per capire che cosa stia accadendo si può guardare ai ballottaggi che si sono svolti domenica, dove si è addirittura verificato un sorpasso: l’Istituto Cattaneo ha calcolato che nelle città assegnate al secondo turno il centrosinistra è passato da 16 a 25 sindaci, mentre il centrodestra è sceso da 27 a 17. Spesso ribaltato il risultato del primo turno: è successo a Lecco, a Matera, a Chieti. Sempre ai danni del centrodestra.
La ragione è politica, non solo di tecnica elettorale o di affluenza alle urne. L’alleanza a trazione sovranista non ha forza espansiva. Ha un serbatoio di consensi ampio e ancora maggioritario nel Paese, ma non riesce mai a uscire dai suoi confini. Nel doppio turno paga perciò di più questa specie di lockdown. Allo stesso tempo ha una capacità molto limitata di trovare alleati all’esterno, anche occasionali.
Il guaio è che le due prossime tappe del giro d’Italia della politica si corrono entrambe con le regole meno adatte al centrodestra. L’anno prossimo votano Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna col doppio turno. Habitat ideale per Pd e Cinquestelle, che possono così allearsi senza allearsi, tanto ci si ritrova al ballottaggio. L’altra gara è l’elezione del Capo dello Stato.
I n Parlamento il centrodestra non ha né numeri né alleanze per fare da solo. Tanto che forse gli converrebbe cominciare a pensare a una soluzione condivisa, di larghe intese, per non subire un’altra sconfitta.
La strategia di Salvini va dunque rivista, e non sembra sufficiente neanche nella forma riveduta e corretta presentata ieri nell’intervista al Corriere . Il Capitano continua infatti a ragionare in termini di pura forza elettorale. La sua risposta alle difficoltà, aprirsi di più alla società, è giusta in sé, soprattutto se è un’autocritica per la scelta dei candidati in Toscana ed Emilia-Romagna, dove alla società il leader ha preferito il partito, optando per militanti di professione e di sicura fede. Ma non è risolutiva, perché i voti alla Lega, per quanti se ne possano conquistare ancora, hanno comunque un tetto, determinato dalla storia, dalle origini nordiste del movimento, dalla sua collocazione internazionale, dal suo gemellaggio con la nuova destra europea. Dunque difficilmente basteranno per imporre Salvini a Palazzo Chigi (neanche Di Maio con il 32% del 2018 ci è arrivato). Oltre a estendere il suo consenso, la Lega deve perciò estendere le sue alleanze. E per farlo, ha bisogno di cambiare il volto con cui si è presentata negli anni rampanti del salvinismo.
Due operazioni sono indispensabili. La prima è in Europa. Non si tratta di diventare un po’ più moderati, o di vantare i «contatti riservati» cui ha accennato ieri Salvini. Si tratta di lasciare Marie Le Pen e l’estrema destra tedesca al loro destino e di andare altrove. Serve un gesto esplicito di rottura per entrare nel novero delle forze politiche accettabili in un assetto europeo che conta e conterà sempre più per avere credibilità di governo in un Paese come l’Italia, il quale di certo non può fare da solo. L’intero atteggiamento eurofobico di una parte della destra italiana non è più adatto all’era post-Covid: oggi è chiaro alla grande maggioranza degli elettori che ci conviene star dentro, non fuori. Sull’uso dei fondi del Recovery la destra non potrà dunque limitarsi a fare ammuina in aula, ricorrendo al filibustering o alla verifica del numero legale. È tempo di sporcarsi le mani con i problemi, comportarsi dell’opposizione come se si fosse al governo: dire dei no, ma anche dei sì.
La seconda operazione è accettare e addirittura favorire un allargamento dell’alleanza sul lato del centro, per surrogare la declinante Forza Italia nel compito decisivo di contendere i voti moderati. Per farlo Salvini deve rinunciare all’idea che chi non è sovranista non è di destra. E non gli basterà evocare come in una seduta spiritica la buonanima della «rivoluzione liberale». Berlusconi ci vinse le elezioni venticinque anni fa, e se non ce l’ha fatta lui in un quarto di secolo, difficile che ci riescano Borghi e Bagnai.