“Anche quando non possiamo stare vicini, possiamo essere insieme”. Così il video pubblicitario di una delle più grandi compagnie telefoniche europee sponsorizza lo Smart Working, attraverso il primo spot realizzato interamente da remoto grazie a registi, professionisti e famiglie. Durante un incontro presso lo Spazio Avanzi di Milano del febbraio 2016, organizzato da Vodafone in collaborazione con Digital4 e Microsoft, il ricercatore del Politecnico di Milano Luca Gastaldi definì questa nuova filosofia manageriale “dinamica ed effervescente”, poiché concede ai dipendenti flessibilità nella scelta degli strumenti, dei tempi e dei luoghi di lavoro. A suo dire i lavoratori guadagnerebbero in tempo, mentre le imprese vedrebbero la produttività della forza lavoro migliorata. Eppure, con l’invito a lavorare il più possibile da remoto durante la fase due dell’attuale pandemia e l’aumento della digitalizzazione del lavoro ormai in corso da decenni, ci si interroga anche sugli svantaggi dello Smart. Proprio il 5 maggio 2020 Cobas-Codir, Sadir, Uil e Ugl hanno richiesto alla giunta siciliana Musumeci la regolamentazione del lavoro da casa. I sindacati rivendicano il rimborso delle utenze, buoni pasto, fornitura di dispositivi digitali, ma soprattutto il riconoscimento domenicale. In poche parole, il diritto alla disconnessione.
In Che cos’è il plusvalore? l’economista Christian Marazzi spiega come attraverso la digitalizzazione dell’esistenza il confine tra tempo produttivo e libero svago sia sempre più fluido. L’ammontare di ore dedicate al lavoro non solo aumenta, ma invade ogni antro della vita privata. Rispetto ai tempi di bronzo del lavoro in fabbrica, dove una campanella scandiva la fine delle fatiche quotidiane, lo Smart Working ci segue nelle nostre abitazioni, rendendo difficile distinguere il momento di riposo da quello di produzione. I dispositivi mobili, inoltre, ci condannano a un costante e velato lavoro gratuito, tramite l’aggiunta di contenuti sui motori di ricerca, come banalmente un commento al nostro blog di fiducia, le visualizzazioni e la disponibilità a rilasciare, più o meno consapevolmente, indizi per altrimenti costose indagini di mercato. Siamo così entusiasti nel fisicizzare gli spazi di conference call pensandoli innocui e nell’elogiare la funzionalità di applicazioni quali Zoom e Skype, che non ci accorgiamo nemmeno del controllo che esercitano sulla nostra sfera privata. Tutto ciò che è smart accorcia i tempi, diminuisce gli sforzi, attenua apparentemente i danni ambientali, ma quali sono le controindicazioni di sorveglianza che tale digitalizzazione del lavoro comporta?
Nel 1975 Michel Foucault pubblica Sorvegliare e punire. Il saggio, attraverso una serie di casi studio storici, tenta di delineare il passaggio epocale che ha trasformato i sistemi di controllo occidentali da punizione pubblica a monitoraggio in termini politici. Se durante epoche passate la prigione era concepita solo come luogo provvisorio dove attendere l’esito di una pena il più esemplare possibile, a partire dal diciassettesimo secolo la Politica apre le porte alla Disciplina. La punizione lascia spazio alla sorveglianza, mentre l’ostinata pretesa di correggere interessa anche dispositivi apparentemente sconnessi dalla dimensione carceraria, come la Scuola, le Fabbriche e gli Ospedali. Il vantaggio è quello di rendere le logiche di controllo, soprattutto quelle meno sanguinarie come la censura e la manipolazione, più subdole, in modo da bruciare il terreno a eventuali sollevazioni da parte della società esterna alle mura penitenziarie. Così il Panottico, un modello carcerario ideale progettato dal filosofo e giurista britannico Jeremy Bentham nel 1791, diviene per Foucault metafora perfetta di un monitoraggio che estende i propri meccanismi all’intera società. Un unico osservatore: nel formato immaginato da Bentham il guardiano della prigione posizionato al centro di una pianta circolare di celle, mentre nelle democrazie occidentali la Politica che tutto vede e nulla mostra. Una potenziale infinità di osservati: i detenuti del Panottico come i cittadini di uno Stato.
Con la digitalizzazione del lavoro, e in generale della nostra esistenza, il “piantone” tanto cantato da De André è ancora più invisibile. Si nasconde tra le strette maglie virtuali dei dispositivi mobili, sfrutta l’intrattenimento che i nostri schermi riproducono per succhiare forza lavoro inconsapevole e controllare i comportamenti degli individui. Navigare in Internet certamente contribuisce al nostro sviluppo culturale e accresce capacità specifiche, ma può anche alimentare, con cookies e non solo, velate indagini di mercato o arricchire piattaforme virtuali gratuitamente. E se si pensa che la Politica sia estranea alle dinamiche che governano i nostri dispositivi digitali, basti pensare allo scandalo di cui si è fatta protagonista Cambridge Analytics all’inizio del 2018. Raccolti i dati personali di milioni di utenti Facebook senza il loro consenso, la società di consulenza britannica ha usufruito di informazioni private a scopo di propaganda politica, macchiandosi pubblicamente di furto e controllo di identità digitali, ma in fondo umane.
Se, dunque, oltre alla nascita della “Società-Fabbrica” di cui parla Toni Negri in La Forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione (1977), anche la prigione abbia esteso i proprio confini a tutti gli angoli della città, o peggio ancora si sia diramata in ogni anfratto alfa-numerico? Lo Smart Working non regolarizzato non sarebbe altro che una bestia famelica del nostro tempo libero e lo smartphone la nuova palla ai piedi dei detenuti, dove la morsa delle catene ha ceduto il posto alla localizzazione permanente. A proposito di quest’ultimo aspetto, l’attuale pandemia ha risvegliato nel cosiddetto Potere foucaultiano la brama di riprodursi attraverso sistemi di controllo sempre più sofisticati. Siamo tutti rimasti esterrefatti davanti all’impianto digitale lanciato dalla Repubblica Popolare Cinese. Software già precedentemente in uso come Wechat e Alipay sono “caldamente sponsorizzati” dal governo per poter tracciare e circoscrivere la diffusione del Covid-19.
Lo ha raccontato, tra gli altri, Report, nella video inchiesta girata a Wuhan dal titolo Wuhan città aperta dello scorso aprile. Attraverso Qrcode i cittadini sono obbligati a registrare la propria presenza prima di entrare nei negozi, salire sugli autobus e uscire dalla metropolitana. I movimenti degli abitanti e la potenziale pericolosità di un luogo infetto sono accessibili a tutti gli altri concittadini, in modo da diminuire il rischio di contagio nel recarsi in determinate zone della città, oppure essere informati a proposito di casi positivi rilevati nei medesimi percorsi. Nei software non sono riportati nomi o dati strettamente identitari (per ora), ma la posizione è comunque un dato sensibile, dato che spesso i partecipanti richiedono addirittura l’ubicazione immobiliare del malato in questione. I cittadini sono così esposti a una doppia sorveglianza: non solo osservati e facilmente rintracciabili dallo stato, ma anche attori protagonisti dell’osservazione altrui, indossando le vesti di secondini della privacy.
Simili applicazioni sono diffuse in altre nazioni o territori di giurisdizione autonoma. Come riporta l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri (IRCCS), in Corea del Sud l’app Corona 100m traccia gli spostamenti degli individui in maniera tale da comprendere dove si siano mosse le persone contagiate, con chi sono entrate in contatto e che tipo di attività svolgevano. A Singapore, invece, stanno utilizzando TraceTogether, un sistema per il tracciamento interamente basato sul bluetooth degli smartphone, che prevede il salvataggio dei dati acquisiti solo all’interno del dispositivo. Anche la Lombardia, seppur più timidamente, con il lancio dell’App AllertaLOM, sviluppata dalla holding regionale Aria Spa e promossa dal GEPD (Garante europeo della protezione dei dati) e dunque con il conseguente avallo europeo, ha accettato la sfida digitale della circoscrizione del Covid-19.
I primi sms hanno raggiunto i cittadini lombardi mercoledì 16 aprile. In effetti, il Regolamento europeo per la privacy, in vigore dal 2016, riporta che, seppur in assenza di una norma statale specifica, risulta possibile, anche in deroga alla vigente normativa in tema di protezione dei dati personali – in particolare con riferimento all’acquisizione del consenso degli interessati al trattamento dei dati personali per l’invio di sms istituzionali –, procedere in questa direzione, in quanto l’attuale pandemia implica condizioni di necessità e urgenza. Attraverso la compilazione da parte di ogni utente di un questionario giornaliero l’obiettivo è sempre quello di raccogliere dati consistenti per un quadro quanto più completo possibile degli infetti nella regione, al fine di monitorare, questa volta per tempo, eventuali nuovi focolai. Tuttavia, la situazione appare non poco all’armante nei confronti della privacy, dato che, come ha fatto notare Stefania Stefanelli, professoressa associata di diritto privato e direttrice del Master in Data protection, cybersecurity e digital forensics dell’Università di Perugia, i gestori del servizio avrebbero accesso: al codice Imei del dispositivo, ovvero la stringa di numeri che identifica univocamente smartphone e tablet e all’indirizzo Ip, che invece permette di conoscere l’host di rete, e quindi di identificare la provenienza della connessione. È facile immaginare come un semplice incrocio di dati possa rilevare con esattezza l’identità di ogni utente.
Certo, virologi ed epidemologi avranno la possibilità di tracciare una mappa efficace del rischio di contagi, ma siamo sicuri che questo non comporterà un’ulteriore dimensione carceraria della società? Forse, solo un venturo filosofo dal calibro di Michel Foucault sarà in grado di illuminarci.