di Paolo Mereghetti
Che cosa fa il direttore di Cannes nei giorni che precedono l’inaugurazione del festival? «Mi informo su come i grandi hotel della Croisette — il Majestic e il Carlton soprattutto — nascondano le loro facciate dietro i manifesti che pubblicizzano i nuovi film. Se non ci fossero, Cannes non sarebbe più il festival di cinema più importante del mondo». L’ha dichiarato alla rivista Positif il «delegato generale» Thierry Frémaux, aggiungendo che la forza della manifestazione — che quest’anno ha scelto come foto simbolo del proprio manifesto il volto di Ingrid Bergman — si basa su quattro, fondamentali, pilastri: le star, gli autori, il mercato e la stampa. «Se ne manca uno, la manifestazione scricchiola».
Quest’anno, a far scricchiolare il festival, ci ha provato una parte della stampa francese, lamentando l’eccessiva presenza dei film di casa loro: 19 sui 77 titoli selezionati nelle quattro rassegne ufficiali — Concorso e fuori Concorso, Un certain regard, La Quinzaine des réalisateurs e La Semaine de la critique — sono firmati da registi transalpini mentre sarebbero troppo poche le opere provenienti dall’Africa, dal mondo arabo e dall’America Latina.
Lasciata cadere, invece, l’accusa di «misoginia» sbandierata negli anni passati visto che il film d’apertura — L a Tête haute (La testa alta) — è diretto da una donna, Emmanuelle Bercot, e due registe, Valérie Donzelli e Maïwenn, corrono per la Palma d’oro.
Ma anche di fronte a queste lamentele, il delegato generale taglia corto: «Quando lo spettatore è in sala e la proiezione comincia, non gli importa di sapere se è diretto da una donna, da un regista dello Sri Lanka o da uno sconosciuto. Quello che vuole è che il film sia bello». Così, forte dei successi delle ultime edizioni, Frémaux sembra non preoccuparsi dell’accusa di eccesso di nazionalismo né di aver privilegiato l’Italia selezionando le opere di Moretti ( Mia madre), Garrone ( Il racconto dei racconti ), e Sorrentino ( Youth – La giovinezza ).
In effetti erano più di vent’anni che il nostro Paese non presentava in concorso tre opere firmate da registi così titolati: Moretti con la sua Palma d’oro per Il nome del figlio , Garrone con due Gran premi della giuria (cioè due palme d’argento) per Gomorra e Reality e Sorrentino fresco fresco di Oscar per La grande bellezza . Scherzando con alcuni colleghi italiani, il capo ufficio stampa del festival, Christine Aymé, si augurava che almeno un film tricolore sia presente nei premi per non dover far fronte a possibili contestazioni, svelando così l’attesa che circonda la selezione italiana.
È vero però che quest’anno, il festival presenta più di una sorpresa capace di ribaltare i pronostici. Per esempio c’è il fantascientifico The Lobster ( L’aragosta ) del greco Yorgos Lanthimos, dove chi non trova con chi dividere la vita viene mandato in un bosco e trasformato in un animale. E sempre un bosco è al centro di The Sea of Trees ( Il mare di alberi ) di Gus Van Sant, dove un americano va in Giappone per togliersi la vita nella «foresta dei suicidi» ma evidentemente non ha fatto i conti con il caso.
Sono due delle opere di cui si chiacchiera molto (senza che nessuno li abbia ancora visti) così come si prevede il meglio per Carol di Todd Haynes, storia di un amore tra donne nell’America puritana degli anni Cinquanta (per molti il titolo più atteso e in cima ai pronostici). Oppure per il film di kung-fu del raffinatissimo regista taiwanese Hou Hsiao-hsien — Nie Yinniang ( L’assassina ) — dove una ragazza è rapita da alcune monache buddiste e addestrata nell’arte della guerra per sfidare i nemici maschi!
Qualche titolo sarà destinato a fare «tappezzeria» ma questi appena citati sembrano tutti sulla stessa lunghezza d’onda dell’inedita coppia di presidenti di giuria, Joel ed Ethan Coen, campioni del bizzarro e dell’insolito quando non dei perdenti e dei reietti. In effetti, nel gioco delle previsioni e dei pronostici bisogna ricordarsi anche delle dinamiche interne alla giuria dove i due fratelli americani sembrano sovrastare tutti gli altri per riconoscimenti pubblici e sensibilità cinefila. Solo il 27enne canadese Xavier Dolan sembra capace di tenere loro testa e bisognerà vedere dove orienterà i suoi originalissimi gusti.
Sulla carta i film francesi sembrano propendere troppo verso un intimismo psicologico e riflessivo (con scivolate nell’incesto per il film di Valérie Donzelli, Marguerite & Julien ) o un cinema dai sottolineati riflessi sociali ( La loi du marché , La legge del mercato di Stéphane Brizé è un titolo che parla da solo e quello di Jacques Audiard, Dheepan , mescola militanza e immigrazione) per far presa su una giuria che tende a un cinema di «spettacolo» più che di intervento politico, mentre quelli italiani rivendicano un peso «autoriale» che può rivelarsi controproducente nell’ottica dei Coen o dell’altro giurato americano Jake Gyllenhaal ma che può affascinare Xavier Dolan. Difficilissimo prevedere come andrà a finire.