In una clausola di Contro l’interpretazione (che uscì nel ’66 e l’anno dopo in Italia nei «Quaderni della Medusa» per la storica versione di Ettore Capriolo) è scritto senza mezzi termini che «l’arte è una secrezione, non una costruzione». Non ci aspetteremmo un anti-intellettualismo così tranchant dalla raffinata intellettuale di soli trentatre anni, Susan Sontag, che è appena riapprodata a New York dopo un lungo e rigoroso apprendistato tra Berkeley, Chicago e Harvard. L’anti-intellettualismo è tuttavia una solida componente della cultura americana se a rileggere la prima delle cinque parti, quella a carattere teorico, che compongono questo memorabile esordio – Contro l’interpretazione e altri saggi (torna nell’ottima traduzione di Paolo Dilonardo con una nota di Daniele Giglioli, da nottetempo, pp. 148, € 20,00) – ci si avvede che la giovane Sontag sospetta qualunque metodologia che badi ai contenuti (per esempio la psicoanalisi, il marxismo di Lukacs, la filologia) mentre privilegia l’impatto dell’opera nei termini della intensità, del vigore espressivo e dell’abito formale che basti a sé stesso e dunque al lettore.
In un altro passaggio oggi non meno celebre, Sontag dichiara che il lavoro intellettuale, con le sue strategie irriverenti e aggressive, ama vendicarsi dell’opera d’arte soffocandola e aggiunge che l’Ermeneutica andrebbe finalmente sostituita da una Erotica dell’arte medesima: sembrano le infastidite espressioni di un Harold Bloom in anticipo di decenni e in estatica contemplazione delle epifanie shakespeariane ma, se lette in retrospettiva, esse mostrano di essere il fumus persecutionis in cui si nasconde una straordinaria critica della cultura, forse la sola erede del grande Edmund Wilson, la stessa che avrebbe di lì a poco firmato i saggi contenuti in Stili di volontà radicale (Mondadori 1999) e Interpretazioni tendenziose (Einaudi 1975).
Perché in realtà Contro l’interpretazione è un libro di pura ermeneutica e, anzi, di sistematica demistificazione (de-costruzione si sarebbe poi detto) delle idee correnti e degli stereotipi che dal dopoguerra affliggono l’immane quantità di merci scritte, filmate, dipinte e comunque veicolate dall’industria culturale. Nel poscritto alla riedizione del’96 Sontag ricorda come allora ritenesse un vero scrittore soltanto qualcuno capace di scrivere di tutto, e l’indice del volume include infatti recensioni e saggi su Camus, Cesare Pavese e Simone Weil, sul cinema e la Nouvelle vague, sulla produzione teatrale corrente, su Genet letto da Sartre come su Alain Resnais e sul Marat/Sade di Peter Weiss, sulla forma dell’happening e sulla moda del Camp dove si focalizzano alcuni temi che anni dopo saranno oggetto delle dispute sul Postmodernismo.
L’autrice giura di rifuggire da qualsiasi metodica ma, pure se sottaciuto, il suo metodo è implacabile perché muove sempre da una nozione ossificata nel senso comune del lettore o dello spettatore per neutralizzarla e ricodificarla in uno stile vivido, penetrante e molto attraente: perciò, presentando la raccolta, scrive di sentire questo suo primo libro come un gesto liberatorio ma con l’impressione, contemporaneamente, non tanto di avere risolto un certo numero di problemi quanto di averli prosciugati.
Del grande talento critico, Sontag mostra la innata capacità di scolpire definizioni o aforismi, e qui non si finirebbe di citarli per la loro pregnanza: Simone Weil («fascinazione per l’estremismo, instancabile corteggiamento della sofferenza»); Walter Benjamin («il critico letterario che Lukács avrebbe potuto essere»); Jean-Paul Sartre («la critica per immersione») o Ionesco («l’apoteosi della banalità che assembla un libro sul teatro infarcito di banalità»). Il suo vero bersaglio non è pertanto l’ermeneutica ma l’a priori ideologico o insomma la poetica, talora armata fino ai denti nel tempo delle nuove avanguardie, che vorrebbe surrogare o persino sostituire l’effettiva opera di poesia. (E quanto a ciò la biografa Béatrice Mously – in Susan Sontag, Flammarion 2017 – racconta che, visto il successo del libro, Andy Wahrol, stanco di essere disprezzato dagli intellettuali, timidamente le propose un ritratto seriale invitandola alla Factory).
Cruciale è la diade saggistica, proprio nel cuore del volume, dedicata a Robert Bresson e Jean-Luc Godard, amatissimi e apprezzati per motivi opposti e complementari, l’uno il regista del Diario di un curato di campagna, l’asceta di un cinema laconico ed eminentemente riflessivo, fondato sulla perfetta disciplina delle emozioni, l’altro, l’autore di A bout de souffle, il demiurgo sperimentalista del linguaggio cinematografico: qui, agli occhi di Susan Sontag, se l’opera di Bresson rigetta le «idee» quali superfetazioni o astrazioni disincarnate, al contrario quella di Godard vive di sole idee ma, per l’appunto, il suo è un cinema «delle» idee non certo «sulle» idee. Non cambierà mai parere, come testimonieranno non solo e non tanto i suoi romanzi quanto le grandi partiture saggistiche della maturità, da Sulla fotografia (Einaudi 1978) a Malattia come metafora e Davanti al dolore degli altri nell’ultimo biennio riedite da nottetempo che meritoriamente sta riproponendo l’opera integrale della scrittrice americana. Una saggista, suggerisce Daniele Giglioli, che pagandolo in prima persona ha voluto ostinatamente e talora disperatamente mantenersi, sempre, nel punto in cui il mondo si rinnova.