SOLDI E QUADRI L’ULTIMA IRONIA DI HENRY JAMES.

di Giorgio Montefoschi

«Oh, i piaceri non desiderati sono come le relazioni non cercate!» sospira a un tratto Lord Theign. Siamo più o meno a metà di Indignazione (Fazi, pp. 220, e 16,50), l’ultimo romanzo di Henry James pubblicato prima della sua morte, accolto con straordinario successo. Cinquantatreenne di roseo incarnato e in generale splendido aspetto, totalmente indifferente a ciò che non lo tocca da vicino, Lord Theign ha due figlie — una, Lady Grace, carina, concupita da vari corteggiatori, l’altra, Lady Imber, una specie di scialacquatrice di professione dedita anima e corpo alla passione per il gioco d’azzardo: causa di fastidiose richieste alla borsa paterna — e una dimora in campagna, Dedborough Place, di assoluta importanza: decine e decine di stanze, saloni, biblioteche, terrazze sopraelevate, gradinate a zampa d’oca, fontane, giardini, prato e parco.
Ad accrescere il prestigio e la fama della nobile magione contribuiscono, ben esposti, quadri di valore inestimabile, anche se forse non proprio tutti autentici a sentire qualche malalingua. Fra questi, con attribuzione invece certissima, spicca un meraviglioso Joshua Reynolds, La bella Duchessa di Waterbridge : un quadro che sta in fondo a una fuga di salotti e ha molti pretendenti. In particolare, vorrebbe acquistarlo un americano ricchissimo, Breckenridge Bender, approdato in Inghilterra col preciso scopo di staccare dalla parete la Duchessa e, se possibile, qualche altro pezzo di quella rinomata collezione d’arte. Gli americani (che, si sa, di pittura non capiscono niente) sono carichi di quattrini e più pagano più sono contenti. Quindi è molto strano per il miliardario trovarsi di fronte a un rifiuto.

Lord Theign — amorevolmente assistito da un’amica, Lady Sandgate, con la quale probabilmente c’è del tenero, a sua volta interessata a piazzare un Lawrence nel quale è ritratta la sua bisnonna — è oberato di debiti per le follie di Kitty (il geniale personaggio, causa di tutto il trambusto, che non appare mai nel romanzo): non ne può più. Quindi sarebbe parecchio interessato a staccarlo qualche dipinto dalla parete di uno degli ultimi salotti e consegnarlo all’avido Bender (purché non ci siano delle volgari contrattazioni), ma come si fa a vendere un Joshua Reynolds, a privare non Dedborough Place bensì l’Inghilterra di un’opera così importante? Se poi, a fomentare quell’ombra di dubbio, ci si mette di mezzo un giovane ragazzotto con cappello da ciclista, critico d’arte e patriota dei Beni Culturali, capitato nel bel mezzo delle discussioni, sulla compravendita cala la ghigliottina.
Però Mr. Bender qualcosa deve portarsela al di là dell’oceano. Comunque. Allora perché — salta fuori — non il prezioso Moretto da Brescia? Soprattutto se al giovane critico affamato di meriti viene in mente che quel Moretto potrebbe essere nientemeno che un Mantovano? Mr. Bender riflette. Lui è venuto per comprare un Reynolds o quadri di pari valore; adesso gli dicono che deve comprare un Moretto che forse è un Mantovano. Innanzitutto: chi stabilirà se il Moretto non è il Moretto ed è un Mantovano? Poi: farà abbastanza chiasso tornare in America con un Mantovano, anche se pagato moltissimo, per esempio centomila: la cifra che a New York pone qualsiasi oggetto al centro della dovuta attenzione?
Le porte dei saloni di Dedborough Place, e poi quelle degli appartamenti londinesi nei quali la scena si trasferisce, si aprono e si chiudono per un «va e vieni» irresistibile, quando la vicenda (pensata per il teatro, poi trasformata in romanzo) prende corpo e diventa incandescente. Chi entra, chi esce. Chi sale, chi scende. Per non parlare degli intrecci sentimentali, delle proposte matrimoniali che complicano tutto e fanno soffrire moltissimo il Lord, che mai era sceso così in basso.