Siena, parlano i ricercatori (giovani e rientrati in Italia): «Pressioni? Sì, ma ci isoliamo»

Sulla collina dei talenti ritornati: qui nasce il farmaco anti Covid

 

Giulia Maestrini

 

SIENA All’inizio del Novecento, quando Achille Sclavo ci investì i proventi del premio ricevuto per gli studi sul siero contro il carbonchio fondando quello che sarebbe diventato l’Istituto Sieroterapico e vaccinogeno Toscano, questa era solo una collina fuori da Siena. Abbastanza vicina da arrivarci a piedi, ma abbastanza in campagna per allevarci i cavalli che erano essenziali per la ricerca sui derivati del sangue. Chissà se quello scienziato visionario, imprenditore e studioso delle malattie infettive che oggi è considerato il padre della scuola farmaceutica e vaccinologica senese, immaginava che quella collina, oltre un secolo dopo, sarebbe stata ancora terra di ricerca scientifica di altissima specializzazione. Ancora capace di attrarre talenti e far germogliare la scienza tanto da diventare frontiera nella sfida a una pandemia mondiale.

La chiamano «la collina magica», quasi che il merito sia un po’ anche suo, ma non è alla magia che si affidano i tanti ricercatori e scienziati che qui hanno trovato casa, in questo luogo ormai inglobato dal perimetro cittadino di Siena e intanto divenuto hub strategico delle scienze della vita. Qui si sono avvicendate le multinazionali che, un decennio dopo l’altro, sono subentrate alla «vecchia Sclavo» (oggi c’è Gsk) e qui è nata e prospera Toscana Life Sciences, la fondazione pubblico-privata impegnata a realizzare un farmaco partendo dagli anticorpi di chi dal Covid-19 è già guarito. La storia comincia a febbraio grazie a un’intuizione di Rino Rappuoli, esperto mondiale di vaccini che su questa collina lavora come Chief Scientist di Gsk ma che, senza prendere un soldo, supervisiona anche un gruppo di ricercatori che all’interno di TLS lavora sui batteri antibiotico-resistenti. «Quando si è scoperto il paziente 1 — racconta Claudia Sala, la microbiologa che coordina il team — eravamo in uno dei nostri meeting settimanali in laboratorio e Rino è arrivato con questa idea di riadattare gli studi che stavamo facendo sui batteri, applicandoli al coronavirus: ci abbiamo pensato cinque minuti, il tempo di raccogliere le idee, e abbiamo iniziato a lavorare».

Grazie ad accordi con l’Istituto Spallanzani e con l’ospedale senese delle Scotte i ricercatori hanno ottenuto il plasma di 20 pazienti guariti; da quelli hanno isolato oltre 4 mila cellule B che producono anticorpi e, attraverso diverse procedure di screening, sono arrivati a estrarre i 3 candidati che lo stesso Rappuoli definisce «anticorpi potentissimi». Per tre mesi hanno lavorato a ciclo continuo, fermandosi solo il 30 giugno quando hanno festeggiato il deposito dei brevetti. «Adesso — spiega Fabrizio Landi, presidente di Tls — gli anticorpi candidati sono nelle mani della Menarini per lo sviluppo industriale; l’obiettivo è iniziare a fine anno le prove cliniche su volontari sani e, a seguire, la sperimentazione sui pazienti affetti da Covid 19. Incrociando le dita, tra primavera e l’inizio dell’estate dovremmo avere il farmaco approvato per l’Italia e cominceremo a produrlo con Menarini; il fabbisogno del Paese, circa un milione di dosi, potrebbe essere disponibile entro la fine del 2021, poi serviranno partner industriali in grado di produrlo su larga scala e distribuirlo nel mondo».

Il governo ha già assicurato il proprio supporto, non solo perché nella sua ultima visita a Tls il ministro Roberto Speranza aveva dichiarato che «qui si gioca la sfida di dare una risposta definitiva al virus», ma soprattutto perché nel decreto Agosto ci sono 380 milioni in 2 anni destinati a ricerca scientifica e produzione anche di anticorpi monoclonali. Claudia Sala e il suo team — 15 ricercatori giovani, in gran parte italiani rientrati dall’estero — intanto continuano a stare in laboratorio. E forse ora con più tranquillità. «Un po’ di pressione c’è stata, non lo nego — spiega la scienziata — ma siamo stati capaci di isolarci, facendo al meglio quello che sappiamo fare. Il Covid-19 è stato una sfida che ovviamente avremmo preferito non dover affrontare, ma l’abbiamo accettata e oggi possiamo parlarne con una certa gratificazione. È un risultato tutto italiano che dimostra come la ricerca scientifica possa essere, per il Paese, un volano di crescita».

 

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