«Non si può seriamente dubitare che il parlamentarismo sia l’unica forma reale in cui l’idea di democrazia possa essere attuata nell’odierno contesto sociale».
È la risposta che diede Hans Kelsen a Carl Schmitt il quale riteneva che il Parlamento avesse esaurito le proprie ragioni «storico-spirituali».
Tanto Kelsen quanto Schmitt erano, entrambi, del tutto consapevoli della grave crisi in cui versava l’organo della rappresentanza popolare, ciò che però radicalmente li separava era la visione di democrazia. Per Kelsen, infatti, l’essenza e il valore della democrazia era da rinvenire nelle garanzie del procedimento parlamentare, poiché esse sole potevano assicurare la dialettica e il contraddittorio (la «contrapposizione di tesi e antitesi») tra i diversi interessi politici. È solo a seguito di questo necessario confronto che si può formare la volontà dello Stato democratico. Il «compromesso» parlamentare si regge sul principio di maggioranza s’intende, e dunque non c’è alcun cedimento verso forme di governo assembleari che minino le prerogative e l’attività dei Governi. Ma proprio per assicurare capacità di governo è necessario garantire che si possano esprime e far valere entro il Parlamento gli effettivi rapporti sociali.
ALTRIMENTI, scriverà con drammatica chiarezza Kelsen, il conflitto finirà per travolgere la democrazia: «Se c’è una forma che offra la possibilità di eliminare questo profondo contrasto – che si può deplorare ma non seriamente negare – non mediante sanguinose rivoluzioni ma in modo pacifico e graduale, questa è la forma della democrazia parlamentare».
Carl Schmitt riteneva invece il Parlamento il luogo dell’inconcludenza politica, mero «teatro della divisione pluralistica della società». Si doveva, dunque, immaginare un futuro senza quest’organo, ormai entrato in una fase di «autodisfacimento». La volontà statale non si sarebbe più assicurata mediante il principio di rappresentanza politica plurale, bensì poteva essere conseguita ben più efficacemente in base al principio d’identità. Identità in un capo (Führerprinzip) e adozione di un sistema di pronunce dirette della volontà popolare su singole questioni («Se i cittadini aventi diritto al voto non eleggono un deputato, ma in un referendum, in un cosiddetto plebiscito reale, decidono effettivamente da sé e rispondono con un ‘sì’ o un ‘no’ a una domanda loro posta, il principio dell’identità è veramente realizzato al massimo grado»). Nei termini più propriamente istituzionali, dunque, la ricetta per superare la crisi del Parlamento era in questo caso indicata nel passaggio ad un sistema di presidenzialismo plebiscitario.
QUESTO CONFRONTO sul futuro del parlamentarismo si è svolto negli anni Venti del secolo scorso, durante la fase più vivace della repubblica di Weimar. Poi sappiamo come è andata a finire. A me sembra di un’attualità sconcertante ed una lezione su cui meditare, poiché essa coglie l’essenza dei problemi del nostro tempo con una distanza e una profondità d’analisi del tutto assenti nel dibattito convulso che si è acceso su queste delicatissime questioni.
NON VORREI nobilitare troppo gli attuali critici del Parlamento (da Casaleggio a Giorgetti), ma le tesi da loro sostenute non possono essere considerate in sé e per sé, devono essere valutate alla luce della visione di superamento della democrazia parlamentare lucidamente fissata da Carl Schmitt. Non sono, infatti, in discussione le aspre critiche che vengono rivolte alle patologie del sistema: che il Parlamento non conti più nulla, che non sia più riconosciuto dai cittadini (Giorgetti), o che la sfiducia dei cittadini nella classe politica abbia radici lontane e lo scollamento tra i palazzi e la vita reale non sia una novità (Casaleggio) sono certamente dati di realtà. Quel che inquieta sono le conclusioni che se ne traggono e le prospettive che si indicano. Per Casaleggio «il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile», sostituito da forme in cui il volere dei cittadini venga tradotto direttamente in atti concreti e coerenti; mentre con più pragmatismo Giorgetti indica la classica strada della repubblica presidenziale come via per superare un parlamentarismo inconcludente e andare alla ricerca di un rapporto diretto tra il popolo e un capo. È una repubblica identitaria il futuro che ci viene prospettato. Forse solo, in termini schmittiani, un’altra forma di democrazia, privata però del suo valore e della sua essenza.
EPPURE, quel che impressiona sopra ogni altra cosa è che nel dibattito attuale sia scomparsa la voce di chi, pur consapevole della crisi del sistema parlamentare, voglia riaffermarne il suo primato. Non fosse altro perché è questa l’unica forma reale in cui l’idea di democrazia può essere attuata.
IN FONDO basterebbe tornare a Kelsen per individuare una strada alternativa a quella che ci è stata sin qui proposta, e non solo con le ultime dichiarazioni degli esponenti del governo giallo-verde, ma dall’intero establishment politico ormai da qualche lustro. La crisi delle democrazie contemporanee si lega indissolubilmente al disfacimento del sistema parlamentare. Ed è proprio questo doppio stallo che impone di riflettere sulle forme assunte dalle procedure parlamentari, non più in grado di assicurare il confronto tra i diversi interessi politici. Se qualcuno volesse seriamente affrontare le drammatiche questioni poste dall’odierno contesto sociale, sempre più asfittico e chiuso, dovrebbe con forza rivendicare una nuova centralità del sistema parlamentare. Poiché senza un Parlamento in grado di essere effettivo luogo del compromesso politico non c’è spazio per un’idea di democrazia plurale.