Draghi e il dossier su imprese e Economia
di Federico Fubini
Da quando ha lasciato la presidenza della Banca centrale europea, più di un anno fa, Mario Draghi si esprime in pubblico piuttosto di rado. Chiaramente, cerca di non interferire. È attento a non dare l’impressione di voler entrare nelle scelte del governo italiano o in quelle di Christine Lagarde, che ha preso il suo posto a Francoforte. Le rare volte che Draghi è intervenuto sui grandi problemi di questo tormentato 2020, lo ha fatto solo offrendo il suo parere su temi che riguardano l’economia internazionale: mai parlando esclusivamente dell’Italia o della zona euro.
Così ha fatto in un suo intervento in marzo sul «Financial Times», così anche nel suo discorso al Meeting di Rimini in agosto. E così in questi giorni Draghi presenta, come co-presidente con il celebre economista indiano-americano Raghuram Rajan, un rapporto del gruppo di grandi personalità internazionali che va sotto il nome di G30.
Il rapporto del G30Redatto con Douglas Elliott di Oliver Wyman e Victoria Ivashina della Harvard Business School, il documento si concentra sul futuro delle imprese dopo gli shock e l’accumulo di debito e sussidi che le hanno sostenute in questi ultimi mesi. Draghi ne ha parlato a un gruppo ristretto di media internazionali, fra cui il «Corriere». «Perché non stiamo vedendo molte insolvenze di imprese nel mondo?», si è chiesto. «In realtà, almeno in Europa, ne vediamo meno quest’anno che nel 2019». La spiegazione dell’ex presidente della Bce è che il flusso di sussidi pubblici e credito garantito da parte dei governi «sta coprendo una realtà che è molto più preoccupante di quanto possiamo stimare per il momento». Il rapporto del Gruppo dei Trenta indica le strade per gestire le conseguenze di questo fenomeno, a partire da norme di diritto fallimentare più snelle e efficienti.
Draghi sceglie un approccio che lui stesso definisce di «cauto realismo». Offrire sempre nuovo credito a un’azienda non redditizia non la rimetterà in piedi, osserva. «Ci sarà un aumento dei crediti deteriorati in tutto il sistema bancario in gran parte del mondo», prevede Draghi. Di qui l’esigenza, che lui stesso sottolinea, di preparare strategie per permettere agli istituti di evitare una stretta al credito nei prossimi mesi e anni. Successe durante o anche dopo la Grande recessione del 2007-2008 in molti Paesi avanzati e lo stesso fenomeno va prevenuto adesso. «Anche in futuro le piccole e medie imprese continueranno a dipendere dal sistema bancario e anche per questo la salute degli istituti di credito è importante — avverte Draghi —. Tutti vogliamo banche che continuino a sostenere l’economia e il settore privato ma, se il loro capitale viene assorbito dai crediti deteriorati, quel sostegno mancherà».
Il patrimonio delle bancheDi qui l’analisi del banchiere centrale, che si è formato al Massachusetts Institute of Technology grazie agli insegnamenti di Franco Modigliani, Stanley Fischer e Rudi Dornbusch negli stessi anni in cui preparavano il loro PhD al Mit anche Ben Bernanke, Olivier Blanchard e Paul Krugman. «A un certo momento qualcosa andrà fatto per il capitale delle banche — dice Draghi —. Che siano bad bank che acquisiscano i crediti deteriorati, aumenti di capitale oppure altri interventi, sono sicuro che ci si dovrà occupare di questa questione».
Se il settore privato entra nel 2021 con molte incognite i governi, se possibile, ne hanno anche di più. Soprattutto in Europa, dove in molte capitali si è diffusa l’idea di usare la parte di prestiti del Recovery fund in gran parte per finanziare progetti che esistevano già e non investimenti supplementari. In Italia, Spagna e in molti altri Paesi europei si teme che aggiungere nuovi piani a quelli già previsti possa far salire troppo il debito pubblico. Nasce così la preferenza di molti a non emettere titoli di Stato per molti miliardi in più sul mercato e coprire invece alcuni dei vecchi piani d’investimento con prestiti presi dal Recovery fund. Draghi, com’è tipico per lui, su questi aspetti resta molto pragmatico: «Quel che bisogna valutare è se un progetto è utile o no — dice —. Se supera certi test che riguardano il suo tasso di rendimento sociale, come anche nell’istruzione o nel cambiamento climatico, oppure è semplicemente il frutto di una convenienza politica e di clientelismo». Da sempre diffidente verso la retorica, il banchiere centrale ammette che esita a ripetere un concetto ricordato da molti in questi mesi: «Questa è un’opportunità unica di investire in molti progetti di valore elevato — dice —. Se sono vecchi o nuovi non è importante, ciò che conta — e molto — è che il loro valore sociale sia dimostrabile». Lo è se per esempio aggiorna tecnologie obsolete, o se apre spazi produttivi in nuovi settori. Per l’economista che ha diretto il Tesoro e guidato la Banca d’Italia, in gioco «è il futuro dei Paesi in questione».
La chiave per la sostenibilitàIn gran parte dell’area euro — non solo in Italia — gli interrogativi sul debito pubblico sono comunque ineludibili. «In base a tutte le previsioni, i tassi d’interesse resteranno bassi per molto tempo — prevede Draghi —. La mia congettura è che, in ultima analisi, la sostenibilità del debito pubblico in un certo Paese sarà giudicata sulla base della crescita e quindi anche di come verranno spese le risorse di Next Generation EU. Se saranno sprecate, il debito alla fine diventerà insostenibile perché i progetti finanziati non produrranno crescita. Se invece i tassi di rendimento dei progetti fossero elevati e tali da giustificare l’investimento pubblico, allora la crescita arriverebbe e diventerebbe il fattore decisivo per la sostenibilità del debito». La qualità dei progetti specifici è dunque la frontiera sulla quale il Recovery fund può fallire o invece segnare una svolta in positivo. Ma Draghi, da economista, precisa un aspetto: «L’impatto (di Next Generation EU, ndr ) sulla crescita e sulla sostenibilità del debito negli anni a venire sarà maggiore, quanto più grande è il debito iniziale — nota —. Per questo è così importante che i Paesi con un debito elevato facciano una valutazione molto attenta del tasso di rendimento dei progetti che finanzieranno».
Investire su ZoomNaturalmente c’è anche un percorso psicologico, per approdare a una vera ripresa. «Le persone in questo momento si sentono perse, c’è molta incertezza», riconosce Draghi. «Le banche centrali non hanno molte alternative alla scelta di continuare per un lungo periodo di tempo quel che hanno fatto finora. Ma in realtà il virus e la rapidità con cui si arriverà alla vaccinazione di massa determineranno tutto. Solo allora le persone potranno ricominciare a viaggiare e assumersi rischi d’investimento: per molti è difficile farlo solo sulla base di una conversazione su Zoom».
Solo export verso la Cina?Per il momento i governi in tutto il mondo si trovano costretti a navigare a vista, ad eccezione forse della Cina dove la crescita è tornata. Per il resto, osserva Draghi, «nuovi programmi di sostegno seguono vecchi programmi, senza interruzione». In particolar modo in Europa consumi e investimenti restano deboli, i motori dell’attività sono l’intervento pubblico e l’export soprattutto verso la Repubblica popolare. «All’inizio qualcuno diceva che questa sarebbe stata una recessione a forma di V — ricorda l’ex presidente della Bce —. Non lo è, questa è una lunga recessione. Se dunque i progetti pubblici saranno disegnati bene, saranno di grande aiuto. Se non lo sono, non contribuiranno alla crescita». Perché alla fine la ripresa non può dipendere solo dalla benevolenza dei cinesi nel comprare auto tedesche che montano freni italiani o moda italiana esportata da multinazionali francesi. Dipenderà da come i Paesi, tutti, sapranno trasformare il Recovery fund nei fattori produttivi di domani.
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