L’analisi
L’Italia è, fra i grandi Paesi dell’Unione europea, quello in cui la cultura riformista è più debole. Questo non accade da oggi. Si tratta di un problema storico della nostra politica, che si lega a doppio filo con l’inefficienza delle istituzioni e la fascinazione populista. pagina 24 L’Italia è, fra i grandi Paesi europei, quello in cui la cultura riformista è più debole. Non da oggi. Si tratta di un problema storico della nostra politica, che si lega a doppio filo con l’inefficienza delle istituzioni e la fascinazione populista. Il cammino che dalla fine degli anni Ottanta ha portato il Pci prima a divenire la gamba italiana del socialismo europeo e poi a dare vita al Partito democratico (assieme al cattolicesimo popolare e alla sinistra liberale) aveva appunto l’ambizione di rompere questo circolo vizioso: finalmente, dotare il nostro Paese di una grande forza riformista, a vocazione maggioritaria.
Oggi qual è il futuro del riformismo italiano? Il voto del 4 marzo ha segnato il punto minimo di consenso non solo per il riformismo ma per l’intera sinistra, da sempre, da quando vige il suffragio universale. E siamo tornati a essere un’eccezione: a ben vedere non c’è in tutta l’Europa occidentale nessun altro Paese in cui le forze populiste, sommate, risultino così forti. Sbaglierebbe però chi pensasse che proprio per questi motivi si è ormai toccato il fondo e non resta che ripartire. Vorrebbe dire cullarsi in una facile illusione, per almeno tre motivi.
Primo, sul piano internazionale, non è affatto detto che l’Europa riesca a contenere un’Italia a guida populista, come molti sperano. Quell’Italia infatti potrebbe allearsi con i Paesi dell’Europa dell’Est, finora marginali, e assurgerne a leader. La costruzione europea diverrebbe particolarmente instabile, con esiti imprevedibili. Tanto più che, fuori dal Vecchio Continente, l’intero ordine a fondamento del mondo liberal-democratico non è mai stato così fragile. Secondo, sul piano interno il rischio maggiore è che la Lega e i Cinque Stelle si mettano d’accordo solo per rifare la legge elettorale, riportandoci al voto fra pochi mesi. Con una nuova legge elettorale maggioritaria, sia Di Maio che Salvini capitalizzerebbero al massimo il loro recente successo e, in particolare, i Cinque Stelle lancerebbero un’Opa sugli elettori del centrosinistra, con l’argomento del voto utile. Il Pd rischierebbe di divenire una forza residuale. E potrebbe rimanerlo a lungo.
Di nuovo la cultura riformista si eclisserebbe nella storia d’Italia, inghiottita dal populismo dei Cinque Stelle.
È evidente che per evitare questo rischio il Pd e l’intero campo riformista hanno bisogno di tempo per riorganizzarsi: perché l’opera dovrà essere profonda, non limitarsi a un ricambio di vertice o a qualche parola d’ordine. Se il Pd vuole tornare a riprendersi i voti che ha perso, è proprio l’intero asse della politica riformista che va reimpostato, rimettendo al centro la lotta alle disuguaglianze, sottovalutate non solo da Renzi. Così come va rinnovata la classe dirigente anche in periferia (specie al Sud), con figure credibili per la nuova politica. Proprio la gravità della sfida è di per sé il terzo motivo di preoccupazione: anche nello scenario più favorevole, non è affatto detto che un’opera di tale portata riesca. Anzi.
Forse davvero nei prossimi mesi il riformismo italiano sarà a un bivio, che deciderà il suo destino da qui per molto tempo a venire. E a differenza che in passato, ora il contesto è molto più difficile: non è più permesso di sbagliare, non nella strategia ma nemmeno nella tattica. Di questo almeno bisogna essere consapevoli.
Oggi qual è il futuro del riformismo italiano? Il voto del 4 marzo ha segnato il punto minimo di consenso non solo per il riformismo ma per l’intera sinistra, da sempre, da quando vige il suffragio universale. E siamo tornati a essere un’eccezione: a ben vedere non c’è in tutta l’Europa occidentale nessun altro Paese in cui le forze populiste, sommate, risultino così forti. Sbaglierebbe però chi pensasse che proprio per questi motivi si è ormai toccato il fondo e non resta che ripartire. Vorrebbe dire cullarsi in una facile illusione, per almeno tre motivi.
Primo, sul piano internazionale, non è affatto detto che l’Europa riesca a contenere un’Italia a guida populista, come molti sperano. Quell’Italia infatti potrebbe allearsi con i Paesi dell’Europa dell’Est, finora marginali, e assurgerne a leader. La costruzione europea diverrebbe particolarmente instabile, con esiti imprevedibili. Tanto più che, fuori dal Vecchio Continente, l’intero ordine a fondamento del mondo liberal-democratico non è mai stato così fragile. Secondo, sul piano interno il rischio maggiore è che la Lega e i Cinque Stelle si mettano d’accordo solo per rifare la legge elettorale, riportandoci al voto fra pochi mesi. Con una nuova legge elettorale maggioritaria, sia Di Maio che Salvini capitalizzerebbero al massimo il loro recente successo e, in particolare, i Cinque Stelle lancerebbero un’Opa sugli elettori del centrosinistra, con l’argomento del voto utile. Il Pd rischierebbe di divenire una forza residuale. E potrebbe rimanerlo a lungo.
Di nuovo la cultura riformista si eclisserebbe nella storia d’Italia, inghiottita dal populismo dei Cinque Stelle.
È evidente che per evitare questo rischio il Pd e l’intero campo riformista hanno bisogno di tempo per riorganizzarsi: perché l’opera dovrà essere profonda, non limitarsi a un ricambio di vertice o a qualche parola d’ordine. Se il Pd vuole tornare a riprendersi i voti che ha perso, è proprio l’intero asse della politica riformista che va reimpostato, rimettendo al centro la lotta alle disuguaglianze, sottovalutate non solo da Renzi. Così come va rinnovata la classe dirigente anche in periferia (specie al Sud), con figure credibili per la nuova politica. Proprio la gravità della sfida è di per sé il terzo motivo di preoccupazione: anche nello scenario più favorevole, non è affatto detto che un’opera di tale portata riesca. Anzi.
Forse davvero nei prossimi mesi il riformismo italiano sarà a un bivio, che deciderà il suo destino da qui per molto tempo a venire. E a differenza che in passato, ora il contesto è molto più difficile: non è più permesso di sbagliare, non nella strategia ma nemmeno nella tattica. Di questo almeno bisogna essere consapevoli.