Un magistrato che accusa i politici di uso politico della giustizia è un’autentica novità, dopo vent’anni passati a discutere fino allo sfinimento dell’opposto, e cioè dell’invasione di campo dei giudici nella lotta politica. Eppure è proprio ciò che ha detto il procuratore capo di Palermo, Lo Voi, con la coraggiosa intervista rilasciata ieri a Giovanni Bianconi: «È un’anomalia italiana la tentazione di agganciare ogni tentativo di ribaltamento degli equilibri politici a qualche iniziativa della magistratura, come se la politica avesse sempre bisogno di un appiglio giudiziario a cui attaccarsi, prima di muoversi».
Lo Voi si riferisce alla kafkiana vicenda di Palermo, dove il Pd sembra approfittare, per liberarsi del suo presidente di Regione, di una molto presunta intercettazione, che il povero procuratore si affanna a giurare inesistente, ma tutti continuano a far finta che ci sia, pur di costruire un «contesto» sciasciano che condanni Crocetta e promuova Faraone, il sostituto designato.
Ma Palermo non è l’unico caso di questa nouvelle vague . Roma è l’altro. Anche lì un’inchiesta, Mafia Capitale, è usata come detonatore di una campagna contro il sindaco Marino, le cui dimissioni meritavano di esser chieste per le buche e la sporcizia della città forse più che per il suo (scarso) ruolo nei fatti penali: politica a orologeria si potrebbe chiamarla, parafrasando la vecchia polemica contro la giustizia a orologeria. E anche lì un procuratore, Pignatone, è stato chiamato a districare nodi politici non suoi, dovendo esprimersi sull’ipotesi di scioglimento del Comune per mafia.
A ggiungerei all’elenco anche il giudice di Napoli cui è stato chiesto di risolvere il pasticcio De Luca, creato dal Pd candidandolo nonostante la legge Severino, e che ha rinviato ad altri giudici, stavolta costituzionali, il verdetto finale sull’intricata storia. Sono tutte vicende che segnalano una fase nuova, ma non meno malata, del rapporto giustizia-politica.
Stavolta i magistrati ne sono incolpevoli, hanno anzi spesso il merito di tirarsi fuori come Lo Voi e Pignatone, precisando che il loro compito «è fare indagini e processi, senza doppi fini e senza intenti pedagogici».
Si vede che non intendono comportarsi, passando direttamente dalle inchieste sui politici allo scranno del politico, come hanno fatto Emiliano in Puglia e de Magistris a Napoli, o come ha provato a fare Ingroia.
Ciò che denunciano è il frutto marcio di una lunga stagione in cui una vera e propria dipendenza dalle inchieste è entrata nelle vene della nostra democrazia, assuefacendola. Ora sul palcoscenico ci sono politici più giovani e più smaliziati perché nati nel post-tangentopoli, che hanno imparato a usare questa patologia nazionale, invece che esserne usati. Ma siamo ben lontani dalla guarigione. Anzi.
Se proprio le inchieste devono avere un «uso politico», verrebbe da dire, meglio fidarsi della giustizia, che almeno ha tre gradi di giudizio, piuttosto che del giudizio politico, per sua natura interessato, volubile e fazioso.
Antonio Polito