L’ossessione non nasce spontaneamente. Non nasce in tutti gli individui. Essa si innesta come debole speranza in un individuo spossato. Compare sotto forma di luce e rischiara le tenebre di un’esistenza sino a quel momento al limite dell’insensatezza. Ha una matrice quasi religiosa che spinge al movimento, a non abbandonarsi all’essere e al vuoto. Diventa una vocazione, anzi l’unica vocazione possibile. Come scrive Cioran nella Tentazione di esistere«Non c’è opera che non si ritorca contro l’autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l’avvenimento l’uomo d’azione. Colui che, rispondendo alla propria vocazione e portandola a compimento, si agita dentro la storia, è causa della propria rovina: l’unico a salvarsi è chi sacrifica talenti e doni per potere, sgombro della sua qualità di uomo, sprofondare nell’essere».

Talvolta, per non sprofondare nell’essere, occorre un appiglio, un appiglio materiale. Un oggetto. Ad esempio, una scacchiera. La stessa che sembra unire in un comune corpus di oppressione, di riscatto e di successiva dannazione, il Dr. B. protagonista della Novella degli scacchi di Stefan Zweig e Beth Harmon, della Regina degli Scacchi, romanzo di Walter Tevis saltato agli onori della cronaca grazie allo straordinario successo della miniserie Netflix di Scott Frank e Alan Scott. Il Dr. B sembra in effetti la nemesi di Beth Harmon, giacché ne condivide i patimenti e l’isolamento. Il primo catturato ed imprigionato dai nazisti; la seconda costretta a vivere in un orfanotrofio femminile. La prima materializzazione della prigionia ha i contorni della negazione dell’individuo, della sua stessa umanità. Lo spazio della prigionia è spazio di solitudine pura in cui, citando il Dr. B. in merito alla sua camera-cella d’albergo: «Non c’era nulla da fare, nulla da ascoltare, nulla da vedere, ovunque e incessantemente eri circondato dal nulla, il vuoto assoluto senza spazio e senza tempo. Camminavi su e giù e, insieme a te, andavano su e giù i tuoi pensieri, avanti e indietro, senza posa. Ma, per quanto ci appaiano privi di sostanza, anche i pensieri hanno bisogno di un punto d’appoggio, altrimenti iniziano a ruotare e a turbinare in modo assurdo su se stessi. Neanche i pensieri sopportano il nulla».

Vagano a vuoto anche i pensieri di Beth Harmon, chiusi nel ricordo angosciante dei genitori. A compensare questi pensieri è solo l’apporto dei tranquillanti distribuiti dall’orfanotrofio. Eppure manca ancora un punto d’appoggio. Manca l’oggetto. Manca il Dio a cui devolvere energie e speranze. Alla negazione assoluta dell’esistenza, al vuoto puro, si contrappone così, quasi epifanica, la comparsa di un idolo a scacchi bianchi e neri. Esso si manifesta improvvisamente. Richiede – e anzi pretende – un atto di fede e di totale abnegazione alle sue regole. In cambio sembra promettere l’assoluto. Quando la piccola Beth Harmon scorge per la prima volta e si lascia affascinare dal signor Shaibel intento a giocare a scacchi per conto proprio, o quando Mr. B. ruba il libro durante l’interrogatorio della Gestapo, entrambi percepiscono inconsciamente quanto questo possa costituire una via di fuga dal Nulla che li affligge. Soprattutto, è di curiosità che si nutrono entrambi; sono anche un po’ scettici a riguardo. Mr B. si sarebbe aspettato un romanzo, o quantomeno qualcosa di leggibile e trova invece una raccolta di partite, tattiche e strategie dei migliori scacchisti esistenti. Peggio va a Beth, che viene inizialmente respinta dal signor Shaibel. Gli scacchi appaiono in quell’istante come uno spazio chiuso, inaccessibile, quasi esoterico. Custodito gelosamente nelle forme indecifrabili di un libro sacro o nelle mani di un iniziato (Mr. Shaibel). Per scardinare tali difese occorre perciò un altro atto di fede, più repentino. Si richiede sacrificio, si richiede un atto di forza contro se stessi.

Non c’è opera che non si ritorca contro l’autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l’avvenimento l’uomo d’azione. Colui che, rispondendo alla propria vocazione e portandola a compimento, si agita dentro la storia, è causa della propria rovina: l’unico a salvarsi è chi sacrifica talenti e doni per potere, sgombro della sua qualità di uomo, sprofondare nell’essere

Emil Cioran

Viene offerto ai prigionieri solo uno spiraglio sottile, una scintilla che è quasi l’ultima spiaggia prima di cadere nella depressione. Questa timida luce però si innesta, lentamente, tra le pieghe e tra le piaghe del vuoto interiore accumulatosi in Mr. B e Beth nel corso della prigionia. Diviene speranza di riscatto, specialmente nell’istante in cui dall’Epifania della Vera Fede si passa all’interiorità. La Fede da quel momento si proietta nella mente dei due prigionieri. In un tempo che non esiste, in un divenire costante e senza senso galleggiante nel vuoto delle rispettive esistenze, Mr B. e Beth Harmon cominciano a trasformare lo spazio della scacchiera nell’unico spazio possibile e immaginabile. La vita – se così la si vuol chiamare – intorno a loro scompare, sostituita dalle proiezioni della scacchiera e dei pezzi. Pedoni, alfieri, cavalli, torri, Re e Regina: «Improvvisamente avevo trovato un’attività, forse senza senso, senza scopo, ma pur sempre in grado di annientare il nulla intorno a me: con le centocinquanta partite da torneo possedevo un’arma meravigliosa contro l’opprimente monotonia dello spazio e del tempo».

L’infinita distrazione degli scacchi diviene strumento di crescita. La scacchiera, sin dalle prime battute, diventa per Mr. B. e per Beth Harmon l’unica esistenza possibile. Allora il libro diviene comprensibile e familiare; il profeta, il signor Shaibel, più disponibile e più aperto. Anche lui ha un libro sacro da consegnare alla piccola Beth. Un libro sugli scacchi che accresce la fame d’Assoluto, la spinta vitale della giovane, incorporandola sempre più in quel quadrante da 64 caselle. Eppure, ormai il processo è avviato. La disperazione e i dolori del passato vengono quasi ampliati, resi più concentrati e più raffinati, da quella inusitata libertà dalla vita ripetitiva della prigionia e dell’orfanotrofio. Come a dire che essi non sembrano sparire, sembrano anzi fondersi con quell’inusitato appiglio, fondersi in un tutto potenzialmente devastante.

Ciò è evidente nella tendenza, da parte di entrambi, a scolpire nella mente tutte le 64 caselle e i 32 pezzi con rispettive posizioni, mosse e contromosse di qualsiasi partita giocata e giocabile, ma anche a battersi costantemente contro sé stessi: «L’attrattiva degli scacchi consiste in fin dei conti proprio nel fatto che la strategia della partita si sviluppa in modo diverso nei due distinti cervelli e che in questa guerra di intelletti il nero di volta in volta non conosce le manovre del bianco e cerca costantemente di indovinarle e contrastarle, mentre da parte sua il bianco mira a spiazzare e parare le intenzioni segrete del nero».

Giocare contro sé stessi implica uno slittamento oltre il limite della propria mente, spegnendo e accendendo di continuo una parte della propria funzione cerebrale, scindendo completamente la propria coscienza: «Equivale insomma ad un paradosso, non meno che voler saltare la propria ombra».

La scacchiera si rivela un mero appiglio, una chiesa vuota, che per diventare luogo di culto ha bisogno di fedeli, per promettere il Paradiso deve lanciarsi oltre la mera materialità delle mura o dei pezzi da gioco. La libertà si traduce in puro pensiero che, per citare Pascal, non è che la vera e la sola grandezza dell’uomo. Il dono del pensiero, la grandezza di questa libertà conquistata anche nel vuoto della prigionia, hanno però un costo.

«You’ve got your gift, and you’ve got what it costs» sentenzia il signor Shaibel giocando contro la piccola Beth. Allora quell’unico spazio della scacchiera assume le dimensioni di un’ossessione. E l’ossessione va a coincidere con quel fremito di libertà assaporata dinanzi alla scacchiera; gli scacchi diventano una forma di quasi fanatismo religioso. Cominciano ad intaccare la mente ed il corpo. Divengono ossessione monomaniacale, così come avviene a Mr. B: «Dimagrivo, avevo un sonno inquieto e disturbato, ad ogni risveglio mi costava enorme fatica sollevare le palpebre di piombo. A volte la debolezza era tale che se afferravo un bicchiere, riuscivo a stento a portarlo alle labbra, per quanto mi tremavano le mani; ma appena il gioco iniziava, una forza selvaggia si impossessava di me: camminavo su e giù a pugni stretti e, come avvolta in una rossa caligine, udivo talora la mia voce che, rauca e feroce, gridava a se stessa “scacco” oppure “matto!”».

Il monomaniaco è condotto al collasso da quella stessa inusitata energia che prima costituiva la sua speranza riscatto. Eppure nel monomaniaco è la vita pura ad agire. Istinto di sopravvivenza vitale, furibondo, votato all’estrema salvezza o all’estrema dannazione. Egli osserva il resto del mondo con distacco, tutto in funzione di quell’attimo, che in Beth Harmon si traduce in una spietata sete di vittoria. Un impulso gravido di passione e di erotismo, di volontà di potenza e di instancabile voglia di ribadire un dominio totale su quel campo di battaglia a 64 caselle bianche e nere che costituisce la scacchiera, conquistandosi il diritto a vivere solo grazie a questo.

L’ossessione è fede incondizionata, fede insaziabile di vita, di una vita quasi ultraterrena. Confessa il primo grande sconfitto di Beth, Harry Beltik, di non essere sufficientemente ossessionato dagli scacchi da poter diventare un autentico vincente. Harry può essere, semmai, solo una persona e uno studente normale. Ma la vita e la normalità sembrano non poter convivere, neanche in Cioran. «Se divento sensato, ecco che tutto mi intimidisce: scivolo verso l’assenza, verso sorgenti che non vogliono scorrere, verso quella prostrazione che la vita dovette conoscere prima di concepire il movimento, accedo a furia di viltà alla natura intima delle cose, interamente costretto a un abisso di cui non so cosa fare poiché mi isola dal divenire».

La storia di Mr. B e quella di Beth Harmon sono dunque parabole di salvezza e di dannazione. Soprattutto sono parabole di una ossessione che è la sola libertà possibile; una fuga indefinita e disperata verso l’Assoluto. Se si guarda ancora alla Novella degli scacchi, si scorge l’inusitata bellezza, lo strano fascino che un monomaniaco in ogni epoca e in ogni opera, sia essa letteraria o televisiva, di qualunque genere sia la mania, sportiva, piuttosto che filosofica o scacchistica, può esercitare sulla normale percezione dell’esistenza umana e sul senso più profondo di questa esistenza: «I monomaniaci, innamorati di un’unica idea, qualunque essa sia, mi hanno sempre attratto, poiché quanto più ci si limita tanto più ci si avvicina all’infinito; proprio questi soggetti che ci sembrano così lontani dal mondo, nella loro specifica materia si costruiscono come le termiti una straordinaria e singolare miniatura del mondo stesso».

Massimiliano Vino