Se dopo lo choc della sconfitta scatta l’ansia di voltare pagina.

di Massimo Franco

Il Pd e il Renzi che riemergono dalle elezioni comunali di domenica appaiono sgualciti e ansiosi di voltare pagina, con un’aggressività che non riesce a cancellare lo choc della sconfitta né la nostalgia per le percentuali trionfali di un anno fa. Sentir dire al segretario arrivato a Palazzo Chigi grazie alle primarie, che quel metodo va ripensato, è già singolare. Se a questo si aggiunge un neanche tanto larvato benservito al sindaco di Roma, Ignazio Marino, difeso finora a spada tratta dal partito come un moralizzatore, la sorpresa raddoppia. Magari è il riflesso del momento «più difficile e affascinante», per dirla col premier.
Di certo, trasmette un senso di confusione e disorientamento. In sintesi, la domanda è se il capo del governo sia in grado di gestire con freddezza una battuta d’arresto come quelle subite tra il 31 maggio e domenica; e un’emergenza che lo opprime. La sua tendenza ad attribuire l’insuccesso ad altri e la voglia di «riprendersi il partito», come se non lo avesse già in gran parte, mostrano più frustrazione che strategia. E confermano una personalità innamorata dalla narrativa del successo, costretta di colpo a fare i conti con un cambio di umore dell’elettorato. In teoria, non ci dovrebbero essere grandi difficoltà a piegare le resistenze di una minoranza già umiliata. Anche ieri, il candidato del segretario alla presidenza del gruppo alla Camera, Ettore Rosato, è passato senza problemi. La novità è che nella nomenklatura Renzi non ha avversari in grado di metterlo in difficoltà; ma tra gli elettori è scattata una sindrome che lo può indebolire: sia per l’alta astensione, sia per il travaso di voti verso altre forze. Parte così il tentativo di rilanciare e di recuperare. Anche l’accenno ruvido ad un Marino che «è una persona onesta, ma deve essere capace di amministrare», significa questo.
L’impressione è che Renzi sia deciso a «sacrificare» il primo cittadino sull’altare di un’opinione pubblica che ha votato pensando a Mafia Capitale. Quanti, a cominciare dal presidente del Pd, Matteo Orfini, si sono impegnati a lodare Marino, si ritrovano spiazzati. Fingono di vedere le parole del premier come un incoraggiamento. Lo stesso sindaco glissa. Ma le opposizioni additano la contraddizione. «Orfini, ma se dopo averti costretto a difendere Marino, Renzi lo scaricasse, tu cosa faresti? Ti dimetteresti?», chiede Alessandro Di Battista, del M5S, che già si sente un po’ sindaco.
Sarà una partita giocata di sponda tra Campidoglio, prefetto che deve riferire sulle infiltrazioni mafiose, Palazzo Chigi e Pd. Per paradosso, però, rischia di essere più spinoso il caso della Campania, sulla quale Renzi è stranamente evasivo. Vincenzo De Luca, condannato in primo grado, sarà proclamato presidente della Regione Campania domani. Subito dopo, il premier dovrà pronunciarsi sulla sua sospensione, secondo le norme della legge Severino. Resta da capire se a quel punto si delineerà una sfida tra De Luca e la magistratura, o anche con Renzi: la stessa che si intravede tra il premier e il sindaco di Roma. Eppure, è lampante che il premier parla con loro ma in realtà cerca di riconquistare l’opinione pubblica.