Scola “Il Papa emerito si è preso la responsabilità. La sua lettera è un esempio”

Intervista con il cardinale dopo il mea culpa di Ratzinger sugli abusi
di Paolo Rodari
CITTà DEL VATICANO — Dice che su un’indagine in Italia sugli abusi come quella fatta in Germania devono decidere i vescovi, ma spiega che la cosa importante è anzitutto un’altra e cioè andare alla radice del problema. E tornare al secondo dopoguerra: la Chiesa in Italia «vedeva le parrocchie riempirsi senza che si ricercassero in profondità le ragioni di tanta pratica religiosa». Lì, in questa domanda non posta, «è nato tutto» e ora, «come dice Francesco, siamo al redde rationem ».
Il cardinale Angelo Scola, 80 anni, vive a Imberido, sopra il lago di Oggiono, dove si è ritirato dopo l’incarico come arcivescovo di Milano. Immerso in un paesaggio spettacolare — «anche in un giorno freddo e ventoso sul balcone di casa mia luce e colori», ha twittato ieri — segue le vicende del mondo e della Chiesa con attenzione.
Eminenza, dopo la lettera di Benedetto sugli abusi a Monaco, c’è necessità di una indagine in Italia?
«Sono i vescovi italiani a dover decidere. Comunque, sia che si faccia un’indagine sia che non la si faccia, la cosa più urgente è andare alla radice del problema. Noi paghiamo le difficoltà di una vita della Chiesa che dopo la seconda guerra mondiale riempiva le parrocchie di gente con le varie associazioni che pullulavano di impegno e fervore, senza che ci si chiedesse il “perché” e il “per chi” di questo stesso impegno, perché si andava massicciamente a messa, perché ci si dedicava al volontariato.
Prevaleva la convenzione sulla convinzione. Da lì, dal non entrare nelle ragioni profonde della pratica religiosa e dell’impegno sociale, è nata la deriva e una reale scristianizzazione con tutte le conseguenze».
Qual è allora il male della Chiesa?
«Francesco cita il teologo De Lubac che parla di “mondanizzazione della Chiesa”. Sono nuove forme di pelagianesimo e di gnosticismo ad attaccare oggi la Chiesa dal suo interno. Il Papa fa riferimento a due eresie dei primi secoli che a suo giudizio, e ovviamente secondo tutte le sfumature necessarie, continuano ad avere un’allarmante attualità. Una è lo gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua ragione o dei suoi sentimenti. L’altra è il pelagianesimo autoreferenziale di coloro che fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile di vita. Mentre la salvezza, anche contro i crimini terribili della pedofilia, viene da donne e uomini che accolgono la grazia di Cristo e che sono aiutati a domandarsi “perché” e “per chi” seguono il Signore. La nostra speranza è lì».
Che giudizio dà della lettera?
«Leggendola ho avuto una conferma di ciò che ho imparato di lui in questi lunghi anni a partire dal 1971 e soprattutto della sua modalità di essere e di agire che ho sperimentato come consultore e membro della Feria Quarta della Dottrina della fede: Ratzinger è un uomo che strutturalmente si concepisce a servizio della verità. L’ha detto bene anche padre Lombardi sull’ Osservatore Romano : Benedetto serve la verità. Non solo formulare l’ipotesi che lui abbia scelto la strada della menzogna per difendersi, ma addirittura, come qualcuno ha fatto, che abbia cercato un escamotage è un assurdo come la stessa lettera e la nota tecnica a corredo dimostrano».
Crede che così sia andato fino in fondo sulle responsabilità a cui il rapporto lo chiama?
«È una lettera profonda, in tutto ratzingeriana, che mostra la volontà di vivere il senso di comunione ecclesiale prendendosi sulle spalle la responsabilità di quanto fa ogni membro della Chiesa e dell’intero popolo di Dio, nel bene come nel male. Per me è una testimonianza clamorosa, in un tempo di individualismi dove tutti sono tesi solo a giustificare la propria persona e a dire “io son fuori da questa responsabilità, non c’entro, gli altri faranno quello che vorranno”».
Le responsabilità però sono anzitutto personali.
«Sono sempre personali, ma c’è una solidarietà implicata nella comunione che è il bene più importante che Cristo ha portato.
Lui per primo ha dato l’esempio.
Cristo vede l’obbrobrio del peccato che sembra impedirgli ogni comunicazione con il Padre e, invece di fuggire, prende su di sé il peccato di tutti, lo assume fino in fondo sul palo ignominioso della croce».
Benedetto scrive che presto si troverà davanti al giudice ultimo della vita. E che può avere motivo «di paura» ma anche di letizia.
«La lettera dice di un uomo che, nell’ombra della morte, si dona.
Questo è il senso più vero dell’abbandono. Le fatiche e le prove di questa vita lunga non gli tolgono la felicità. Davanti a sé vede bene le sofferenze delle vittime e prova vergogna di quel terribile crimine che è la pedofilia, ma insieme sa che, dal dono dell’amico Gesù — come lui dice — in croce, può fiorire l’implorazione del perdono».
Crede che il testo sia tutto frutto del suo sacco?
«Nel mio ultimo incontro con Ratzinger l’ho trovato, sul piano dell’acutezza e della memoria, molto più fresco di me. È molto fragile fisicamente, parla con un flatus vocis, ha bisogno di aver vicino qualcuno che lo aiuti a far capire bene le sue parole all’interlocutore, ma ha una mente ancora sveglissima. Mi ha ricordato particolari della nostra amicizia che io avevo completamente dimenticato».
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