Sartori, la filosofia in una stanza

Maestri Un testo del grande politologo fiorentino sulla sua giovinezza di studioso e di renitente alla leva della repubblica di Salò

 

di Giovanni Sartori

I ricordi di guerra: per sfuggire ai fascist rimasi isolato dieci mesi leggendo Hegel

 

Sono nato a Firenze nel 1924. Perciò ho ricordi vividi del fascismo, della guerra in Abissinia, della guerra civile spagnola (nella quale intervennero anche i soldati italiani) e, ovviamente, della Seconda guerra mondiale. È quasi inutile dire che il mio interesse di tutta una vita per la democrazia — una democrazia solida piuttosto che quella avanzata — emerge da quei «neri» ricordi del fascismo e del nazismo.

La guerra dell’Italia, al fianco di Hitler, finì con una resa l’8 settembre 1943. All’inizio di quell’anno avrei dovuto essere reclutato. Ma l’amministrazione dell’esercito italiano era, dopotutto, italiana e, quindi, in puntuale ritardo. La mia chiamata alle armi avvenne solo nell’ottobre del 1943, quando i fascisti avevano dato vita alla repubblica di Salò. Come gran parte dei miei coetanei, cercai di salvarmi nascondendomi. La pena per i disertori era di essere fucilati, e anche chi nascondeva un disertore rischiava la vita. Così, ho passato dieci mesi letteralmente «sepolto» in una piccola stanza finché Firenze non venne liberata dall’occupazione tedesca nell’agosto del 1944. Che cosa può mai fare una persona reclusa dentro una stanza per quasi un anno? Ricordando de consolatione philosophiae, che la consolazione viene dalla filosofia, mi sono messo a leggere Hegel e due eminenti filosofi idealisti italiani di allora: Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Consolazione o no, mi serviva un giorno per leggere dieci, al massimo quindici, pagine di Hegel. E alla fine della giornata ero esausto e pronto per il letto. Quindi, una manciata di libri (una grande comodità in quelle circostanze) fu il mio passatempo fino alla fine della guerra a Firenze. In più, servì a stabilire la mia reputazione di essere ben ferrato negli arcana della filosofia: una reputazione che, improvvisamente e inaspettatamente, mi portò alla vita accademica nel 1950. Così come non avevo nessuna intenzione di diventare un filosofo, nemmeno avevo programmato di diventare un professore. Quelle due cose semplicemente accaddero.

Conseguii la laurea in Scienze politiche e sociali all’Università di Firenze nel novembre del 1946, e per i successivi quattro anni non ebbi nulla di meglio da fare che vivacchiare. Il Paese era in una situazione di assoluto caos e l’università vedeva molti dei suoi «baroni» (cioè, professori ordinari) epurati, sospesi o sotto inchiesta.

Poiché ero considerato un enfant prodige (si ricordi che, almeno in teoria, riuscivo a capire Hegel), fui subito nominato assistente alla cattedra di Teoria generale dello Stato — l’equivalente della tedesca Staatslehre — e, in realtà, la mia assistenza finì per essere un insegnamento vero e proprio in sostituzione del mio professore. Il suo nome era Pompeo Biondi. Non fu mai un insegnante diligente, ma aveva una mente lucidissima, meravigliosamente brillante. Pompeone (come lo chiamavamo, perché era un uomo grosso e imponente che meritava un nome pomposo) mi insegnò, implicitamente, una cosa: che intelligenza cum ignoranza (lui aveva poco tempo e ancora meno pazienza per dedicarsi alla lettura) è preferibile a una erudizione cum ottusità. Ma siccome non potevo uguagliare il suo ingegno, mi fece capire (seconda lezione) che dovevo avere le mie bibliografie in ordine. Così ho sempre letto molto.

E ora la storia di come è capitato che io trovassi — o che venisse trovata per me — la mia vocazione. Eravamo nel 1950. Ad un consiglio di facoltà, il preside, Giuseppe Maranini, disse ai suoi ignari colleghi che aveva un giovane e promettente portento da proporre: Giovanni Spadolini, che all’epoca aveva 25 anni (era di un anno più giovane di me) e che poi divenne direttore del «Corriere della Sera», presidente del Consiglio, presidente del Senato e mancò solo per un soffio la presidenza della Repubblica. Come si vede, Maranini aveva davvero fiutato un vincente. Ma Pompeo, il mio boss, non poteva perdere la faccia perché non aveva nessun candidato da proporre. Così, su due piedi, decise di lanciare me come il suo «contro-genio», e la prima cattedra vacante che gli passò per la testa fu quella di Storia della filosofia moderna.

Il patto venne subito stretto — sia Spadolini sia Sartori — e così venni nominato di punto in bianco «professore incaricato». lo ero all’oscuro di tutto e solo il giorno successivo venni a sapere che avrei dovuto insegnare Storia della filosofia (cosa che poi feci per sei anni: 1950-1956). Da allora, ho sempre creduto che la fortuna e il caso contino moltissimo nella vita, certamente non meno della virtù.

Vi ricordo che la filosofia fu, per me, un «incidente» di guerra, io ero interessato alla logica, assai meno ai filosofi. Ma la logica non veniva insegnata nelle università italiane ed era anatema sia per la filosofia idealistica sia per la dialettica marxista (le scuole di pensiero dominanti). Dovevo cavarmela da solo. Sarebbe troppo lungo raccontare come una particolare combinazione di testardaggine, ma anche di fortunate coincidenze, mi abbia consentito di spostarmi sulla scienza politica. Tralasciando molti divertenti aneddoti, a partire dal 1956 riuscii a far inserire la Scienza politica nello statuto degli insegnamenti della facoltà di Scienze politiche di Firenze. Dopodiché mi trasferii, sempre come professore incaricato, su una disciplina del tutto nuova e da molti guardata con sospetto.

Professionalmente, non fu una mossa particolarmente scaltra. Anzi, tutti i miei amici, compreso Spadolini (che era man mano diventato una sorta di fratello gemello), mi dissero che era una scelta stupida. Per diventare professore di ruolo, o ordinario, nelle università italiane era necessario superare un concorso nazionale che avrebbe selezionato tre vincitori (la famosa «terna»). Siccome ero solo, e la disciplina era conosciuta da pochi se non da nessuno, se fossi stato un animale razionale e calcolatore, la data prevedibile entro cui sarei riuscito a diventare professore ordinario andava collocata a fine secolo: una data troppo lontana per me. Ma a volte — un’altra lezione per i posteri — si può vincere senza aspettarselo.

Quel che a me davvero interessava era di studiare ciò che mi piaceva e di essere il pioniere di una nuova disciplina. Così com’era già avvenuto in passato, perché non lasciare, ancora una volta, che fosse la fortuna a fare il suo corso? Difatti, così fu. A partire dal 1963 (dovetti aspettare ben sei anni, comunque sempre molto meno di quanto previsto) divenni il primo e unico professore ordinario di Scienza politica in Italia. Ovviamente, dovetti usare una entrata laterale, vincendo un concorso in Sociologia. Ma una volta «cattedrato», non mi fu difficile tornare alla scienza politica. Contro ogni previsione, ci riuscii. Il compito successivo diventava perciò di promuovere e definire la disciplina.

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