Salviamo il design italiano

Fino agli anni Settanta è stato un modello internazionale consacrato dalla mostra al MoMa di New York nel 1972 Ma oggi le regole di mercato e la pigrizia uccidono la creatività
di Gaetano Pesce
Fin da quando ero studente pensavo fosse importante ricercare l’origine del design italiano tra le conseguenze del movimento Futurista di Marinetti. Siamo all’inizio del secolo scorso e nasce, in Italia, una corrente artistica che riflette la realtà di allora e celebra il movimento, il rumore, la velocità, il vapore come elemento propulsore, il motore, e l’officina come luogo della produzione. Molte furono le polemiche verso questo modo di concepire l’arte, ma penso che Marinetti e compagni abbiano prodotto non solo un autentico progresso dell’arte, ma hanno anche risvegliato la dormiente e conservatrice cultura artistica di allora. Fu l’ultima volta che l’arte di altri paesi seguì quella italiana, con il Futurismo Russo e poi il Costruttivismo di Tatlin. Forse anche Picasso sentì nell’aria l’importanza del movimento nella pittura, che poi sfogò nel cubismo.
In seguito l’intelligente Duchamp ne capì la portata provocatoria e rivoluzionaria quando espose nelle gallerie parigine degli oggetti di provenienza industriale. In Italia pochi continuarono la professione dell’artista, altri cominciarono a investire in una nuova creatività. Il Futurismo aveva indicato che la realtà del XX secolo era particolarmente influenzata da tutto quello che converge nell’idea di produzione e nei luoghi dove essa prende forma. L’industria moderna denunciava il bisogno di creatività. Fu in quel momento che molti creatori italiani (non voglio dire i migliori), invece che dedicarsi alle categorie dell’arte tradizionale, cominciarono a dare il loro contributo e esprimere la loro creatività nei luoghi di produzione e nell’industria. Apparvero quindi delle nuove professioni artistiche: il grafico pubblicitario, il disegnatore industriale, il creatore di moda e quello che si esprime con il cibo, ecc. Più tardi si chiameranno designer.
Quasi tutti provengono dalle città industriali di Milano e Torino e i primi si chiameranno Schiaparelli, Depero, Boni, Mollino, Ponti, Capucci, Nizzoli, Parisi, Frattini, Valentino, Testa, Travaglia, Albini, Munari, Armani, Castiglioni, Zanuso, Aulenti, Magistretti, Sottsass, Mari, Scarpa, Bellini, e molti altri che ora non ricordo. Contemporaneamente apparivano degli industriali illuminati, sensibili ai contributi dei designer: Olivetti, i fratelli Cassina, Gavina, Necchi, Danese, Zanotta, Poggi, Artemide, Bernini, Flos, Venini, Poltronova, Arflex, B&B Italia, Alessi, Castelli, Tecno, Kartell e molti altri.
Le collaborazioni tra aziende e creatori italiani arrivarono al loro momento migliore negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e fu allora che l’ Italian Design si affermò nel mondo. Il nostro Paese, per la lungimiranza e l’apertura mentale degli industriali italiani, divenne il luogo dove i designer stranieri venivano per trovare realizzate le loro idee, a causa dell’arretratezza degli imprenditori dei loro paesi. La magnifica energia di quei decenni e la fortuna del design italiano attirarono l’attenzione di fondi di investimento sia italiani che non.
Quello che muoveva l’interesse degli “uomini d’affari” non era tanto la creatività e il prestigio del design italiano, quanto il facile guadagno che esso rappresentava. Lentamente i fondatori e i proprietari delle varie aziende venivano messi in disparte e sostituiti con funzionari, dirigenti e art director il cui unico scopo era far denaro, banalizzando i prodotti per renderli appetibili a ogni mercato, eliminando l’originalità e la creatività da quanto fabbricato.
Oggi, dopo vari anni, gli oggetti ripetitivi delle industrie del design italiano danno segni di stanchezza. L’innovazione tende a scomparire e i prodotti delle varie aziende non si distinguono più gli uni dagli altri, e il prestigio e la supremazia italiane iniziano una sorta di decadenza.
Come si sa, ogni impresa ha un suo culmine prosperoso, che se non lo si sa mantenere, è seguito dal declino. Come ho detto, questo magnifico settore dell’economia e della cultura italiane è ormai in mano a chi lo sfrutta senza consentirgli di rigenerare le sue energie creative.
Una proposta per evitare il decadimento potrebbe essere più attenzione da parte della classe politica che, fra le molte inutili parole, potrebbe istituire una legge che ordina che una parte dell’ammontare delle future acquisizioni di aziende italiane sia destinata alla ricerca di progetti innovativi, a borse di studio che esprimano delle idee nuove, a premi per imprese i cui prodotti scoprono nuove tecniche e l’utilizzo di nuovi materiali, all’istituzione di un giorno dell’anno dedicato al design con visite alle industrie, sconti speciali nei negozi, programmi televisivi che celebrino le qualità culturali e economiche del nostro design, la creazione di mostre in città del mondo come fu la straordinaria esposizione al MoMA di New York: Italy, The New Domestic Landscape del 1972.
La nostra più grande ricchezza naturale è la creatività: se la si aiuta e coltiva si irrobustisce, se si pensa che anche senza aiuto può continuare a esistere, ci si sbaglia.
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