S/comparse

di Nicoletta Vallorani

 

Le parole danno forma al mondo. Mentre lo dico, mi spavento, perché penso alle parole che si stanno spendendo ora, in questa sciagurata contingenza, e mi convinco che sia meglio star muti.

Le parole sono pietre, come dice Portelli, combinando ingiustizie diverse e affiancando Giulio Regeni e BlackLivesMatter. Le parole fanno apparire e scomparire le persone, rendono visibile o cancellano le cose e le situazioni. Sono armi che vanno usate con cautela.

 

Le parole della pandemia, in particolare, lo scriveva già Susan Sontag, hanno una valenza doppia, una genealogia metaforica duplice che combina il desiderio di astrarsi dal dolore con la consapevolezza che il corpo malato è reale, esistente, violabile, violato. Le misure “simboliche” che giorni fa invocava uno dei governatori delle regioni italiane sono – se definite come tali – offensive e pericolose. Esse cancellano la consapevolezza dei corpi veri per rimpiazzarla con un lessico di convenienza politica.

 

Anni fa, dal mio punto di vista non medico, mi occupavo di epidemia e contagio, lavorando su Derek Jarman e sulla potente espressività artistica che per questo straordinario pittore e filmmaker si lega alla consapevolezza di una morte allora inevitabile per chi si ammalava di AIDS. Allora come oggi, il lessico prevalente per parlare delle infezioni virali era manicheo: sano o malato, pulito o sporco, normale/normativo o anormale/anomalo. Niente sfumature, nessuno spazio intermedio. E in cima a tutto, una terminologia bellica pervasiva, militarizzata fin negli acronimi utilizzati: chi contraeva l’AIDS, per esempio, era un PWA (“Person with AIDS”), una definizione con più di un’assonanza con il militaristico POW (“Prisoner of War”). Nella sostanza, dagli studi di Susan Sontag su come si raccontano le epidemie all’annaspare espressivo di oggi, poco è cambiato, se non che le metafore biopolitiche di impianto militare certe volte sono usate comicamente a sproposito. Come quando, qualche giorno fa, ci è toccato leggere su un quotidiano nazionale le parole di un assessore della Regione Lombardia che dichiarava fieramente: “Siamo perfettamente attrezzati anche per affrontare l’Armata Rossa”: quasi che il virus fosse comunista – l’unico comunista rimasto, probabilmente, sul pianeta – e andasse sconfitto armi alla mano.

 

In realtà una delle tante cose che stanno già finendo nel conto delle vittime è la capacità di “vedere” quel che sta accadendo, e di raccontarlo in modo che il racconto serva a quello cui servono le storie: capire, trovare strade, rendere visibile, dipanare in superficie il groviglio degli errori. Nell’idiozia politica che pare il segno dei tempi, questa capacità di dar forma al disastro è uno degli illustri scomparsi, mentre appaiono in ogni dove politologi, epidemiologi, esperti di adolescenti e di scuola, economisti autodidatti. Tra essi si aggira sperduto il cittadino ordinario – e questo aggettivo, lo si vedrà, è importante – che è un po’ come lo straniero, il migrante, la donna, l’omosessuale, la figura non normativa, cioè, e bisogna tutti sforzarsi di non esserlo (fingendosi appunto esperto di qualche cosa) e di non vederlo (se si è riusciti nell’impresa di uscire dalla categoria invisibile). In certi luoghi che è sconsigliabile frequentare, il cittadino ordinario è formalmente derubricato a creatura di second’ordine. “Durante la pandemia il privato ha aperto le sue lussuose stanze a pazienti ordinari che venivano trasferiti dal pubblico” proclamava l’Assessore Gallera il 24 giugno 2020, e oggi la stessa voce, riguardo al vaccino influenzale, dice: “Obiettivo è coprire le fasce a rischio. Libero mercato? Non ci possiamo occupare del paziente ordinario”.  Negli anni ‘70, avevamo Raymond Williams, professore, studioso e attivista, che orgogliosamente affermava “Culture is ordinary”: la cultura è di tutti, non appannaggio di una élite di intellettuali. Oggi abbiamo il “paziente ordinario” che sostiene il privato con le sue tasse, ma deve attenderne la compiacente beneficenza, in una cornice amministrativa che si costituisce come un sistema autoimmune, nel quale la critica non penetra, non perché non ci sia, ma perché viene fatta sparire prima di varcare il confine istituzionale. Si smaterializza, un po’ come gli archivi di un tempo quando vengono digitalizzati.

 

Intanto, in questa festa di sparizioni, le scomparse sono anche altre. È scomparso, per esempio, il corpo dei vivi. Non ci sono i sorrisi, le smorfie tristi e di allegria, le bocche chiuse o spalancate sui denti. Per tanti di noi che continuiamo a insegnare, sono scomparsi gli studenti, trasformati in pallini, al meglio decorati da avatar che designano identità immaginare. Sono scomparsi gli abbracci. Nei rapporti tra persone, è sparita la pelle.

 

È scomparso, inoltre, il corpo dei morti. Le persone che se ne sono andate sono oggetti senza respiro che non si riescono a vedere, congiunti svaniti dei quali si è immaginata la cerimonia funebre invece di viverla. La memoria si impolvera presto, mentre il dolore resta intenso, senza potersi consolare di un saluto adeguato.

È scomparsa la cultura, poiché invece di usarla per arginare il disastro, la spingiamo negli angoli, negli interstizi della storia. Ridotta a materia di sedie con le rotelle e acronimi di dubbia trasparenza, è annegata.

 

Infine, sono scomparse la responsabilità e l’obbligo alla competenza: avremmo, in teoria, da adulti una responsabilità, nei confronti dei ragazzi. Avremmo anche la responsabilità di evitare di far sparire le cose che contano, per esempio le relazioni, la dimensione etica, l’idea di comunità. Dovremmo forse anche convincerli che non affogheranno nelle mascherine stringendo in pugno un titolo di studio che vale poco, specie se umanistico, perché strada facendo ci si è dimenticati a che serve la cultura. Dovremmo forse anche ammettere che siamo capaci di litigare, ma non di comporre i conflitti; di indignarci, ma non di impegnarci; di pretendere di essere salvati ma senza rinunciare a quello che ha contribuito al disastro.

 

Paghiamo – qui a Milano, nella mia percezione, ma forse anche altrove –  un’altra scomparsa importante, quella più penosa e originaria: la scomparsa della capacità di capire quel che ci si muove intorno. Per questo genere di comprensione, ci vuole un tempo lento, una riflessione resa essenziale da consapevolezze inedite, uno sguardo attento al caos. Che è nostro compagno e, come scrive Haraway, è la condizione permanente di un pianeta rischia di scomparire anche lui.

 

 

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