(Milano), pagg. 592, € 30
Salvatore Settis
La breccia di Porta Pia (20 settembre 1870) trasformò da un giorno all’altro la sonnolenta città di Pio IX nell’ambiziosa capitale del giovanissimo Regno d’Italia, ben deciso ad allineare Roma sui fasti “moderni” delle metropoli europee, specialmente Parigi e Londra. Transizione non facile, da un ancien régime ancora arroccato con tutte le sue pompe entro le mura leonine, a un Regno accusato di empietà, che però non osò sottrarre al Papa i Musei Vaticani. Con la bizzarra conseguenza che il Re e il governo nazionale, una volta insediatisi nella nuova capitale, controllavano sì una città di impareggiabile ricchezza monumentale, ma non avevano nessun museo paragonabile al Louvre, al British Museum, al Prado (i Musei Capitolini essendo di spettanza municipale). Più vasti e ricchi erano non solo i Musei Vaticani, ma anche le collezioni di più d’un principe romano, dai Borghese ai Doria Pamphilj, ai Torlonia. Si apriva così, nei primi anni della raggiunta Unità, un periodo di ripensamenti e sommovimenti non solo politici e amministrativi, ma anche negli orizzonti del patrimonio culturale, dove la neo-capitale era costretta a ripensare se stessa.
A questi decenni è dedicato il libro di Paolo Coen, basato su ricerche d’archivio condotte da vari studiosi, in un progetto che coinvolse anche i compianti Enrico Castelnuovo, Luigi Spezzaferro ed Enrico Stumpo, con l’appoggio dell’Archivio Centrale dello Stato e di istituzioni come la British School di Roma, le Università della Calabria e di Teramo e la Fondazione Spezzaferro. Un libro ricchissimo non solo di dati (impressionante l’Appendice documentaria, regesto di centinaia di licenze di esportazione di opere d’arte), ma anche di profili biografici di nobili romani (come Michelangelo Caetani), mercanti d’arte (come Giuseppe Sangiorgi), artisti italiani e stranieri operosi in Roma (come Ercole Rosa e Randolph Rogers), collezionisti (come Riccardo Gualino o Robert J. Nevin). Una labirintica prosopografia della Roma di anni convulsi, fra memoria del Risorgimento appena concluso e scontri politici sul futuro di un’Italia in fasce.
Porta Pia, scrive Coen, aprì «la partita fra quanti giudicavano il profilo storico della città sostanzialmente intangibile e quanti invece erano pronti, anzi desiderosi di sacrificarlo nel segno del nuovo». Ma era un nuovo che doveva necessariamente (a Roma!) nutrirsi d’antico; e la chiave di volta della storia d’Italia, di cui la capitale doveva rappresentare la sintesi, fu il Rinascimento. Un periodo storico che solo da poco, grazie al francese Michelet (1840) e allo svizzero Burckhardt (1860) aveva preso la forma ancor oggi corrente, e che venne usato, a contrasto con un Medioevo ritenuto “oscuro”, come il maggior retaggio dell’Italia nata dal Risorgimento. Giocava in quella periodizzazione anche l’affinità concettuale fra “rinascimento”, cioè nuova nascita, e “risorgimento”, cioè resurrezione: nella sua Storia pittorica della Italia (1792-96), Luigi Lanzi parlava di «risorgimento delle belle arti» nel Cinquecento, e ancora nel 1897 la traduzione di un libro di Georg Voigt ebbe per titolo Il Risorgimento dell’antichità classica, ovvero il primo secolo dell’Umanismo. La nuova Italia del Risorgimento fece leva sul Rinascimento, e Roma era la cornice ideale per rilanciare il gusto neo-rinascimentale nell’architettura e nelle arti, incrociando le esperienze di artisti, architetti, manifatture, letterati, con vasta eco oltre frontiera.
L’arte rinascimentale rimandava alla tradizione classica, e molti la pensavano come il pittore americano Edwin Blashfield, secondo cui «la lezione di Roma e dell’Italia è più vasta, meno confusa e più serena [che negli altri Paesi europei] perché non si concentra su una sola fase culturale, ma offre l’intero sviluppo di tutta una catena del pensiero. (…) A Roma l’orizzonte è più ampio e soprattutto più limpido, a Parigi è attraversato da nuvole che passano rapidamente e spariscono sotto i nostri occhi». Raccogliere arte antica, conformare a quel gusto le proprie dimore e stimolare le manifatture: tutti questi aspetti trovarono cultori entusiasti, come il principe Baldassarre Odescalchi col suo castello neosignorile di Bracciano e un Museo artistico-industriale di forti ambizioni e brevissima vita. La tensione verso una nuova grammatica degli stili storici confluiva con l’inseguimento di un linguaggio architettonico autenticamente “nazionale”. Impossibile impresa, che dovette misurarsi con il maggior cantiere di quegli anni, il monumento a Vittorio Emanuele II (protagonista di due capitoli di questo libro), che fu eretto distruggendo importanti memorie archeologiche, contro l’opposizione formale del sindaco Leopoldo Torlonia e i discorsi alla Camera dell’ex ministro Ruggero Bonghi. Ma in favore della collocazione del Vittoriano a ridosso del Campidoglio si schierava intanto Arrigo Boito, che vi vide l’occasione di creare «un’architettura italiana (…), degna della civiltà raffinata, della scienza progredita di questo nostro secolo XIX o del XX, massime ora che l’Italia s’è fatta nazione, ed ha la sua capitale». Nessuno colse lo spirito di quell’impresa meglio dell’americano Joseph Pennell, in alcune incisioni del 1911, dove il Vittoriano in costruzione si mescola, facendo il verso a Piranesi, a squarci della Roma storica.
La nuova immagine di Roma nasceva in funzione della politica interna, ma si rivelava esportabile. George P. Marsh, primo ambasciatore americano in Italia (seguì Re e governo nel passaggio di capitale da Torino a Firenze a Roma), nel suo libro pionieristico Man and Nature (1864, traduzione italiana 1870) faceva centro sull’impero romano per teorizzare la necessità di difendere il paesaggio in America. Scrittori come Herman Melville (Roman Statuary) e Nataniel Hawthorne (The Marble Faun) mettevano a punto una nostalgia del classico che a Roma trovava la sua patria naturale. Ma esportabili erano, ahinoi, anche le opere d’arte; e per molti anni dopo l’unità l’Italia non seppe darsi una legge nazionale di tutela, limitandosi a prorogare (ma a singhiozzo) le leggi dei singoli Stati pre-unitari. La prima legge arrivò nel 1903, ma era debolissima perché tutelava solo le opere “di sommo pregio” di appositi elenchi (che non furono mai fatti). Una legge efficace non vi fu se non nel 1909: quasi cinquant’anni dal Regno d’Italia, quaranta da Roma capitale. Vi era stato dunque tutto il tempo perché decine di migliaia di opere d’arte prendessero la strada dei musei francesi, tedeschi, inglesi, americani.
Di questa colossale emorragia Coen offre numerosissimi esempi, che si accompagnato a interessanti profili, come quello di un ecclesiastico minore, Marcello Massarenti, che ammassò in un palazzo romano migliaia di opere d’arte (inclusi i falsi), visitabili e catalogati come in un museo, ma intanto messi in vendita. Molto di quel materiale fu acquistato da Henry Walters nel 1902, e perciò è oggi a Baltimora, Walters Art Gallery: fra l’altro, opere di qualità suprema come i sarcofagi dionisiaci (c. 190-210 d.C.) trovati sulla via Salaria nel 1885. A evitare l’esportazione non bastava la qualità, e non bastava nemmeno il pedigree delle opere in vendita: perfino la mirabile serie degli arazzi Barberini su disegno di Rubens, documentati a Roma sin dal 1630, emigrarono senza difficoltà (sono ora al Philadelphia Museum of Art). Nel 1908 Luigi Bistolfi riuscì a trattenere in Italia la Fanciulla di Anzio (Museo Nazionale Romano), ma fu rara eccezione. Roma capitale rilanciava dunque nel mondo una nuova immagine, accoglieva artisti stranieri ed esportava i propri. Ma la Terza Roma (dopo la prima, dei Cesari, e la seconda, dei Papi) pagava un prezzo altissimo con le dispersioni del suo patrimonio. Restituendo l’intreccio fra collezionismo italiano e straniero, iniziative di artigianato industriale e sperimentazione di stili storici, passione civile e istinto mercantile, il libro di Paolo Coen traccia una mappa che è anche lo sfondo su cui si svolsero negli stessi anni le discussioni che avrebbero portato, dopo mille contrasti, alle prime leggi di tutela dell’Italia unita, quelle dei ministri Rava (1909) e Benedetto Croce (1922).