È una provocazione, Selfie senza self : una mostra fotografica che si inaugura all’Alzheimer Fest. È un luogo comune, la malattia che colpisce la memoria: persone che dimenticano persino il proprio nome, non riconoscono più il proprio volto. Ci si può fare un selfie quando il self , la consapevolezza di sé, ha smesso di essere piena, è diventata una luna calante?
È una denuncia, questa mostra che apre a Gavirate (Varese) il 1° settembre: mi selfo, dunque sono. Anch’io. Anche Ettorina da Empoli, che con il suo ego calante si è ritratta in foulard e occhialoni da diva. Esistiamo, ci dicono Marina e Carlo guardandoci dal telefonino. Se l’Alzheimer rende le persone invisibili, se i familiari diventano caregiver di fantasmi sotto una cappa di vergogna, un selfie è un piccolo segno, un gesto di orgoglio: ci siamo anche noi. Se Niko guarda nell’obbiettivo e fa clic, può anche essere che non riconosca se stesso: ma noi vediamo lui, e non possiamo fare finta che non esista.
L’Alzheimer è fotogenico. Grandi fotografi hanno esplorato questa malattia, questa condizione che (mettendo nel conto le altre forme di demenza) colpisce un milione e 200 mila italiani. Fausto Podavini ha vinto un World Press Photo con la sua umbratile storia di Mirella . Cathy Greenblat ha girato il mondo per realizzare Love, Loss and Laughter , una raccolta di facce e luoghi dove l’Alzheimer si vive (quasi) gioiosamente. Eros Mauroner porterà all’Alzheimer Fest i ritratti delle sue «regine» in casa di riposo, abbigliate e rinate come dame del Rinascimento. Luca Montani e Mattia Tanzi (Monbotan) presentano Memoriale civico , universo polimaterico con inserti fotografici. Ma le immagini di partenza sono loro, i volti dei Selfie senza self : non più solo oggetti di cura (e di ripresa) ma protagonisti di vita.
Se il selfie contiene meno (o niente) self, si spersonalizza. Il sé diventa un altro. Succede, alle persone con l’Alzheimer, di guardarsi allo specchio e di trovarsi davanti un perfetto sconosciuto, oppure un vecchio conoscente di cui si è perso il nome. È un incubo, naturalmente, ma forse anche una magia. Un toccasana per il nostro mondo ripiegato sul proprio selfie? In The art of losing control , il filosofo Jules Evans ricorda la scrittrice Iris Murdoch e la sua riflessione su uno dei segreti della vita. Lei lo chiamava unselfing . Il dimenticarsi di sé. L’immergersi nelle cose intorno. Iris Murdoch aveva l’Alzheimer, e viene da chiedersi se abbia vissuto questa esperienza come una possibilità estrema di unselfing .
In fondo, anche la fotografia offre questa possibilità. Nel suo studio di Milano, Settimio Benedusi racconta a «la Lettura» quanto sia lontano il selfie dall’autoritratto. Tanto per cominciare, «tecnicamente l’immagine del selfie è ribaltata rispetto alla realtà, come allo specchio. L’unica maniera per vedere come siamo veramente è attraverso la fotografia». La cultura del selfie «ha portato un cambiamento radicale e nefasto». Fin dalle origini, «il fotografo si è nascosto. Telo nero, banco ottico. La fotografia è nata per rivolgere il proprio sguardo verso il mondo. Il selfie è l’opposto. Mentre il fotografo dovrebbe raccontare il mondo, il selfista fa l’esatto contrario. E fa diventare se stesso il mondo».
Ma Ettorina da Empoli si fa un selfie e si vede esistere… «Per chi ha l’Alzheimer il selfie è diverso. Una cosa è la riscoperta di esistere, l’autostima. Altra cosa è l’ego del selfista che mostra quanto è figo». E allora l’autoritratto? «La differenza è abissale. Nell’autoritratto, l’obiettivo è lo stesso usato per guardare il mondo. E la motivazione base non è mostrarsi, ma esplorare se stessi. In maniera critica, non autocompiaciuta. I grandi autori di autoritratti, prima fra tutti Francesca Woodman, sono devastanti. Mai confortanti. Chi si fa il selfie lo fa per mostrarsi al pubblico, non per scavarsi dentro. La condivisione come autopromozione. Se domani esplodono Internet e i social, la gente smette di farsi i selfie dopo un minuto. Quelli che si facevano gli autoritratti continueranno».
All’Alzheimer Fest il grande fotografo Settimio Benedusi verrà sabato 2 settembre per fare ritratti. Che saranno stampati al momento e appesi alle piante. Ritratti di chi c’è. Sani, e soprattutto meno sani. «Come fotografo, mi tiro indietro. Mi nascondo. Sfondo bianco, luce semplice. Niente filtri, effetti speciali. Per lasciare lo spazio alle persone. E se sono persone che stanno perdendo la consapevolezza di sé, sarà ancora più emozionante». Qualcosa dell’ American West di Richard Avedon forse sboccerà nel bosco dei selfie senza self .
- Domenica 13 Agosto, 2017
- LA LETTURA