di Carlo Verdelli
Se n’è andato, Guglielmo Epifani, non immaginando che quello pronunciato alla Camera il 20 maggio sarebbe stato il suo ultimo discorso parlamentare. Un intervento breve su una questione che, da segretario della Cgil prima e del Pd poi, è sempre stata cruciale nel suo orizzonte. L’occasione era l’omaggio a Luana D’Orazio, l’apprendista operaia di Prato straziata a 22 anni da un orditoio. «La centralità della sicurezza e della salute sul posto di lavoro non è una priorità ideologica ma un’evidenza umana. Bisogna che questa evidenza trovi una via meno carsica. Il caso di Prato ha suscitato un’indignazione vera e totale ma, passato il momento del dolore, tutto torna sotterraneo e lì sotto non si fanno le cose come si devono fare. Chiedo al presidente Draghi di aiutarci a vincere questa battaglia di consapevolezza, perché è uno dei sintomi della civiltà e della democrazia di un Paese». Draghi ringrazia Epifani, i deputati tutti si alzano ad applaudire. Tanto sincero cordoglio, nessuna conseguenza pratica. Secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna, curato dallo sdegno implacabile di Carlo Soricelli, tecnico metalmeccanico in pensione, dal giorno in cui Luana non è tornata a casa per il compleanno di sua madre (3 maggio), ci sono state altre 73 morti sul lavoro, donne e uomini inghiottiti nel triangolo delle Bermuda casa-luogo d’impiego-casa, durante uno dei due viaggi o direttamente sul posto.
D ue vittime al giorno, pur se calcolate in maniera artigianale. La «battaglia di consapevolezza» non è evidentemente ancora cominciata. Eppure si dovrebbe, si potrebbe.
L’Italia è una Repubblica democratica che andrà rifondata sul lavoro, come previsto dal primo comandamento della nostra Costituzione. Non sarà facile, anzi rischia di diventare, dopo l’indiscutibile credito guadagnato nella lotta alla pandemia, la nuova emergenza su cui si misurerà la bontà e la tenuta di un governo come quello di Mario Draghi. Essere stato concepito con una stragrande maggioranza, e con un premier d’acciaio, è un vantaggio nell’affrontare questioni complicatissime ma in fondo condivisibili da chiunque (salvare il Paese dal Covid, ottenere i crediti per il rilancio nazionale). Vedremo se continuerà ad esserlo adesso che si entra nel campo delle decisioni più politiche, per esempio la data dello sblocco dei licenziamenti e le garanzie concrete per le centinaia di migliaia di persone (da 70 a 500 mila, a seconda del grado di ottimismo delle previsioni) che pagheranno il primo conto ai guasti dilatati da un anno e mezzo di coronavirus. Servirà enorme equilibrio per trovare soluzioni che non dispiacciano all’Europa che ce le chiede, e anche con piglio, ma che insieme non indirizzino la ripartenza del Paese in una direzione che sacrifichi la pietra miliare della nostra Carta: il lavoro, appunto, come condizione di libertà, dignità e quindi autonomia di ogni singolo cittadino. La condizione del vivere in una democrazia, senza il rischio di perderla, la vita, per un più di sfinitezza, per un meno di dovuta protezione.
A parte il telo che copre i corpi in attesa dell’ambulanza, le morti bianche non hanno niente di bianco, come si ostina a ricordare a giornali e tv un altro operaio, Marco Bazzoni, metalmeccanico di Firenze, altra instancabile vedetta allergica alle «tragiche fatalità» e all’uso pietoso di un colore improprio. Sono piuttosto morti rosse di sangue e di indignazione. Sono nere come la coscienza di chi non fa niente, o non fa abbastanza, per evitarle. Sono verdi, come i dollari e quindi i soldi risparmiati in misure di sicurezza. Sono trasparenti come l’incoscienza del lavoratore che sfida il rischio per un malinteso senso del dovere o per la paura di non fare abbastanza per mantenere il posto. Di morti così se ne contano a spanne (tutti i numeri in materia sono all’incirca) 2 milioni all’anno nel mondo, di cui la vergogna definitiva di 12 mila bambini.
Da noi, dieci anni fa stavano sotto quota mille. Nel 2020, con i calcoli ulteriormente complicati dall’effetto Covid specie su medici e infermieri, sarebbero 1.270, il 16% in più del 2019. I primi sei mesi di quest’anno proiettano un ulteriore incremento dell’11 per cento, con il settore agricolo al primo posto per caduti sul campo o nelle vicinanze, poi l’edilizia, l’autotrasporto, l’industria. Rispetto all’Europa, che registra una media di 2,2 incidenti mortali ogni 100 mila addetti, noi stiamo al 2,6 come la Spagna, meglio della Francia, peggio di Germania e Svezia. E nel conto mancano tutti i contratti in nero, il girone degli invisibili, i senza tutela o le partite Iva a chiamata la cui sorte fisica non è neanche contemplata.
Il panorama da mettere sotto osservazione è composto da oltre 4 milioni di aziende, di cui il 90 per cento di medie o piccolissime dimensioni, con pochi dipendenti, aggiornamento tecnologico dei macchinari quasi nullo (specie in agricoltura), spese in tutela di chi opera affidate più alla buona coscienza dell’imprenditore che alla paura dei controlli. Che infatti sono pochissimi, perché ridotto all’osso il personale per effettuarli. Sulle Asl, che pure dovrebbero avere la giurisdizione regionale anche in materia di salute nei luoghi d’impiego, meglio sorvolare. Al ministero del Lavoro, il «personale ispettivo» è di 2.561 unità, di cui soltanto 1.500 a tempo pieno, e con appena 222 tecnici specializzati per ispezioni in materia di sicurezza. Quando si muovono, è un disastro per i controllati: nel 2020, su 10.179 accertamenti eseguiti, sono emerse 8.069 irregolarità. E se girassero di più? Se fossero il doppio o il triplo o dieci volte tanti? Allo stato attuale, è come trovarsi davanti a un iceberg, la cui parte preponderante è notoriamente quella che non si vede, e pretendere di arginarne il corso smussandone gli spigoli del ghiaccio a vista.
Oltre a un bando di epoca Conte bis per l’assunzione di 740 ispettori del lavoro mai licenziato nonostante gli fosse stata riservata una corsia preferenziale, in Parlamento giace un disegno di legge per l’istituzione di una Procura nazionale sul tema salute e sicurezza, che dovrebbe raccordare i 15 organi di vigilanza già esistenti in materia (al momento, ciascuno beatamente indipendente dall’altro) e avviare un percorso comune e capillare di prevenzione e anche di punizione in caso di trasgressioni. Giace, però. Dovrebbe, volendo.
Luana D’Orazio è diventata un simbolo suo malgrado. Era bella, giovane, aveva un bambino di 5 anni, un nuovo fidanzato, sognava di entrare nel mondo dello spettacolo, aveva già fatto la comparsa in un film di Pieraccioni. L’aspettava un tiramisù per festeggiare a cena la mamma con cui ancora viveva. Lavorava per garantire un presente a suo figlio e un futuro a sé stessa. Continuare a morire come lei perché «non si fanno le cose che si devono fare» (difficile dare torto a Epifani) non c’entra con alcuna ideologia. È partire col piede sbagliato nella ricostruzione dell’Italia che verrà.