Requiem per l’Europa

Un continente schiacciato fra due mondi
DI PAOLO RUMIZ
Per una sera, smetto di ascoltare l’onnipresente Zelensky e mi concentro sulle tv russe e statunitensi. E lì arriva la sorpresa. Lo spettacolo di una dittatura e di una democrazia egualmente chiuse in una bolla fuori dalla realtà. Eccoti Dmitry Kiseliov, mezzobusto di regime, che ringhia di «colpire l’Inghilterra con ordigni nucleari», cui fa eco un popolo rancoroso, ignaro della realtà sul campo, che vede nell’Occidente la fonte dei suoi mali e urla di «bombardare Polonia e Germania ». Poi ecco Rachel Maddow, conduttrice Msnbc , così assatanata da far sembrare Biden un pusillanime. Una che esige che la Russia sia colpita più duramente, e subito. Intorno, un paese imbandierato di giallo-azzurro, bombardato dagli opinion makers, ma che non sa neanche dove sia Kiev, pensa chel’Ucraina sia un paese super-democratico e si sorprende se gli spieghi che fino a ieri gli Usa lo giudicavano corrotto e inaffidabile.
Pur nelle abissali differenze, sorprendono le somiglianze. Entrambi gli antagonisti guardano alla guerra come a un videogioco e alla terza guerra mondiale come a una cosa lontana. Ma soprattutto né l’uno né l’altro sembrano ricordare che fra le due potenze esiste una cosa chiamata Europa, intesa al massimo come una protuberanza dell’America. Forse non se ne sono mai accorti: e li capisco. Come accorgersi di una terra che non ha una sua politica estera né un suo esercito, e resta inchiodata al palo, in bilico tra le strategie di Washington e i rifornimenti di gas dal Cremlino? Un’alleanza incapace di agire in modo autonomo, forte e unitario?
E lì, per la prima volta, ho sentito il rischio che l’Europa unita sparisse davvero, o fosse già scomparsa,schiacciata fra due mondi che giocano alla guerra ignorando la sua presenza, in preda a un ebete sonnambulismo come nel 1914, quando si gettò nel baratro. Una percezione fisica. Come se dovessi prendere improvvisamente atto della fine di un’idea. Come se, dopo aver scritto un “Canto” per lei, la dea-madre che sta all’origine della nostra stirpe, oggi dovessi dedicarle un “Requiem”. Un epitaffio, dove non resta che consolarsi con la nostalgia dei padri fondatori, che nel ’45 concepirono il Sogno sulle sue rovine.
Ripenso a come, prima della Grande Guerra, i vecchi imperi hanno saputo trasformare in spazi- cuscinetto l’antica linea di faglia fra Baltico e Mar Nero, per impedire lo scontro tra le due Europe. E a come noi, al contrario, ce li siamo fatti smantellare, a partire dalla Jugoslavia, una terra plurale dove il disastro ha avuto il suo innesco – guarda un po’ – dalla rivolta di unaKrajina, parola che come “Ucraina” vuol dire “frontiera”. Ma la storia non insegna niente. L’America ha due oceani per tutelare la sua sicurezza. Noi no. Abbiamo a disposizione solo un’intercapedine di spazi neutrali, e proprio di quegli spazi ci priviamo, con la Nato che ora va a “proteggere” anche Svezia e Finlandia.
Quanto ti ho cercata, Europa, nelle nostalgie dei profughi dalmati, nelle ninne-nanne in tedesco della nonna, nel confine alle porte di casa e nella quotidiana intimità col mondo slavo! Da adulto, ti ho inseguita dal Libano all’Egeo in cerca del tuo mito; ti ho percorsa dall’Artico a Odessa, da Trieste a Kiev e Mosca, e da Berlino a Istanbul su treni d’inverno.
Mi sono affacciato dai Carpazi sulla pianura dove il sole arriva dagli Urali, ti ho seguita sul Danubio, il Niemen e il Guadalquivir. Dall’Irlanda al Monte Athos, ho bussato ai monasteri che ti hanno salvatadalla devastazione barbarica. Ho esposto la tua bandiera, ti ho dedicato libri. Ti ho narrata in un’orchestra sinfonica di giovani stupendi. Tutti figli tuoi, dalla Spagna alla Russia.
Esisti ancora, Europa? Non ti trovo più, tu che sei la mia essenza, la mia fede ma anche il mio infinito sconforto; sedimento di millenni, lingue, religioni, incubi, speranze e convulsioni, dai quali è nata, come per miracolo, l’Idea. Il tuo silenzio è assordante. Ti leggo come un corpo inerte, spezzato e subalterno. Un’alleanza incapace di pensare in grande, ossessionata dalla sicurezza, crocefissa da reticolati, dimentica delle guerre che hanno lacerato la tua carne. Quasi nessuno scatta in piedi al suono del tuo inno. Generi sbadigli. Sei una rovina nel vento, come un anfiteatro romano o una sinagoga vuota. Comunque vada a finire, l’Unione stellata uscirà a pezzi, stretta da una durissima recessione, ridotta a pura essenza strategica, con gli ultimi entrati nella Ue – gli ex comunisti del Patto di Varsavia – autorizzati a imporci una linea bellicista, non “per” l’Ucraina, ma “contro” la Russia. La fine di un mondo, quello in cui abbiamo creduto.
Le frontiere e le periferie sono formidabili sensori dei grandi eventi mondiali. Gli abitanti del mio villaggio tra Italia e Slovenia hanno già capito tutto. Piantano patate e carote più del solito, arano rabbiosamente spazi di campagna dimenticati da anni e tra i meli in fiore erigono legnaie enormi per il prossimo inverno. Cercano di riguadagnare l’autosufficienza perduta. Uno di loro, vedendomi passare, ha gridato: «Italiano, preparati! Non vedi come il cielo è diventato buio?». I contadini si attrezzano, mentre in città la gente parla. Passa dal menefreghismo all’insonnia, dall’aperitivo della sera alla visione spaventosa di un fungo nucleare.
Ma il vero pericolo non arriva dall’esterno. Viene da noi, da una balcanizzazione in cui ciascun paese europeo sta già consumando la sua Brexit, il suo personale divorzio da Te. L’Ue spende già ora il quadruplo della Russia in armamenti, ma è un nano strategico. Non ha un suo esercito e una sua politica estera. Avere un’armata con bandiera blu stellata non sarebbe una spesa, ma un risparmio. Noi, invece, abbiamo scelto di spendere ancora, e in ordine sparso. Risultato? Mendichiamo senza vergogna l’aiuto di paesi antidemocratici per trovare spiragli di via d’uscita. Invece di fare un salto in avanti, ci lasciamo dettare la linea da chi un anno fa ha scelto di smobilitaredall’Afghanistan senza nemmeno la cortesia di preavvertirci.
Chiediamocelo una buona volta: la nostra alleanza è fondata su valori o interessi? Su un progetto di vita o un antagonismo armato? Abbiamo favorito la secessione del Kosovo in nome della libertà o per piazzare una base militare nel cuore di uno stato russofilo come la Serbia? Eravamo consci del potenziale epidemico di quella scelta, che oggi autorizza Mosca a pretendere il Donbass? E ancora: siamo sicuri di mandare armi all’Ucraina per amore della sua indipendenza, se fino a ieri le abbiamo vendute alla Russia? Su quale principio universale si gioca l’accoglienza dei profughi ucraini, se milioni di altri rifugiati sono violentemente respinti o lasciati marcire nei gulag greci e turchi?
Mentre scrivo, la “Ocean Viking” con 295 naufraghi a bordo, aspetta da undici giorni l’autorizzazione allo sbarco, in piena emergenza sanitaria, col ponte intasato di corpi e di vomito. Intanto, sul mio confine, i profughi ucraini passano liberamente, senza obbligo della quarantena da Covid, che invece è richiesta agli africani anche se negativi al test. Non ci vergogniamo di una così lampante disparità di trattamento? E non ci viene da immaginare quali tensioni sociali potrà innescare la presenza dei migranti ucraini che noi facciamo sentire di Serie A e che domani potrebbero anche passare di moda?
Non ti riconosco più, Europa. La tua femminilità si è rattrappita, il tuo ventre è sterile. La tua gente è annoiata dalla pace e da vent’anni si lascia governare da paure. Prima l’Islam, poi il terrorismo, poi l’invasione dei migranti, poi la pestilenza virale. Ora, l’Ucraina. Una successione di emergenze monotematiche che ci travolgono sul piano emozionale, ma ci lasciano inerti, esposti a bruschi risvegli come chi ha dormito troppo. Una nevrosi da informazione che diventa amnesia totale, e pare fatta apposta per impedirci di leggere la realtà di una guerra globale per l’accaparramento delle risorse. Che prosegue imperterrita, mascherata da eufemismi.
Ho incontrato profughe ucraine. Madri disperate, ma fiere. Alcune hanno stentato a dirmi grazie per l’aiuto ricevuto e mi hanno fatto capire che, semmai, dovrei essere io a ringraziarle perché i loro uomini rischiavano la vita per me, “in difesa dell’Europa”. All’inizio mi sono offeso. Ma poi qualcosa mi ha avvertito che in quelle donne c’era una parte di ragione. Quel qualcosa diceva: ammettilo, sei figlio di una terra menefreghista, che non è più quella diBella ciao e non si batte più per la libertà di nessuno. Il disastro ucraino mi pungeva sul vivo. Mi rammentava la mancanza di un “noi”, di un simbolo che mi facesse sentire forte. Di una bella bandiera nella tempesta. Il segno di un’appartenenza comune di popoli, figli della stessa terra madre.
L’autore Paolo Rumiz, 74 anni, è un giornalista, scrittore e viaggiatore Per molti anni è stato inviato di Repubblica
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