di Marco Imarisio
Remuzzi: «L’idea del tampone per tutti è sbagliata
Stiamo aprendo le scuole in condizioni di sicurezza»
Professor Remuzzi, che autunno sarà?
«Migliore di quel che molti pensano, a patto di usare il buon senso, mascherine, distanziamento, e rimettere nel cassetto ansia e isteria».
Cosa la induce all’ottimismo?
«Ad esempio, uno studio appena pubblicato su Lancet e firmato da Gianfranco Alicandro e Carlo Lavecchia, dell’Istituto nazionale di Statistica e dell’Università di Milano, che rileva come nella prima quindicina di maggio del 2020, nella seconda e in tutto giugno, non ci sia stato eccesso di mortalità rispetto all’anno precedente».
Traduzione?
«La fase epidemica in Italia è sostanzialmente finita. Il che non vuol dire che non ce ne sarà un’altra, ma che è improprio parlare di seconda ondata».
E perché?
«Ormai siamo entrati nella fase della sorveglianza, che comprende la ricerca accurata dei contatti di persone positive al tampone».
Non la preoccupa il fatto che ne troviamo ogni giorno di più?
«Più ne cerchiamo, più ne troviamo. Mi sembra normale. Il numero dei positivi non è una voce alla quale guardare con paura. Peraltro, ormai abbiamo test capaci di rilevare anche la presenza di frammenti di Dna virale, ma non è detto che appartengano ancora a un virus capace di contagiare».
In attesa del vaccino, per una immunità temporanea dobbiamo sperare solo negli anticorpi?
«Anche nelle cellule T, che sono cellule della memoria. Il nostro sistema immune infatti è una macchina per ricordi, che si rafforza e si espande quando incontra una cosa già vista in passato».
Come gli altri coronavirus?
«Esatto. Gli anticorpi spariscono rapidamente. L’immunità invece si creerà così, con le nostre cellule della memoria, grazie a proteine di altri virus, anche quello del raffreddore, oppure a vaccinazioni che già abbiamo fatto».
Ma chi lo dice?
«Un lavoro appena pubblicato da Science. E un altro studio americano, in fase di pubblicazione, condotto su 137 mila persone che hanno fatto il tampone, quindi un campione molto significativo. Le vaccinazioni somministrate negli ultimi cinque anni, si associano a una riduzione dei tassi di infezione SARS Cov-2».
Basta un vaccino qualunque?
«Tutti i vaccini proteggono. Poliomielite, pneumococco, tubercolosi. Anche varicella, parotite, morbillo, rosolia: garantiscono una protezione del 30-40 per cento. Ovviamente quelli più vicini nel tempo hanno una maggiore efficacia».
E il vaccino per l’influenza?
«Se fatto negli ultimi cinque anni, ha comunque una protezione significativa per gli anziani. Ma non è il vaccino più efficace contro il Covid-19. Non così tanto come speravamo, almeno».
Perché tutta questa ansia per il numero di contagi in aumento?
«Confondiamo i contagi con la gravità della malattia. Ci spaventiamo per numeri che non significano moltissimo. Indicano solo che abbiamo sviluppato la capacità di entrare nella fase della sorveglianza, e quindi troviamo le cose laddove ci sono».
Tampone per tutti?
«Io credo che invece vada fatto in modo selettivo. Se per ipotesi lo fai a cinquanta milioni di italiani, una settimana dopo cosa succede, lo rifai ancora? Non alimentiamo psicosi da tampone. Facciamoli dove servono. Ai confini, negli ospedali, nelle Rsa, tra i lavoratori del trasporto pubblico, tra gli insegnanti e il personale scolastico. Applichiamo i mezzi e le capacità che abbiamo acquisito in modo mirato, e non indiscriminato».
I vaccini proteggono
Tutte le vaccinazioni somministrate negli ultimi 5 anni si associano a una riduzione dei tassi di infezione del virus
È più importante il numero di tamponi giornalieri che quello dei positivi?
«In un certo senso è così. Dimostra che siamo nella fase della sorveglianza, e in qualche modo è l’ammissione implicita che siamo usciti dall’epidemia».
A quali altri numeri bisogna guardare?
«Abbiamo ottomila posti in terapia intensiva. Oggi ne sono occupati per il Covid-19 poco più di cento. Significa che al momento utilizziamo l’1,5% della nostra capacità di cure intensive».
E se i ricoveri dovessero salire?
«Ammettiamo pure che si arrivi a settemila positivi al giorno, come in Francia. Una cosa che penso potrebbe accadere. Ebbene, oggi la Francia ha 500 pazienti in terapia intensiva. Significa che noi utilizzeremmo meno del 5 per cento delle nostre risorse. Ecco, non bisogna farsi prendere dall’emotività. Questa non è una partita di calcio».
Ma una volta in ospedale, chi vince?
«L’unica cosa che conta è che ci siano pochi pazienti. Perché invece medici e infermieri sono sempre quelli, anzi il loro numero sta aumentando. E i malati si perdono anche per piccole cose, si perdono perché quando ne hai tantissimi non riesci a stare dietro a tutto e tutti. Il dato delle terapie intensive è il più importante».
Professore, c’è ancora pericolo di morte o no?
«Oggi i dati ci dicono che il rischio di infettarsi è simile a quello di cadere in motorino e minore di quelli che si corrono durante una immersione subacquea. Quarantaquattro probabilità su un milione. E all’interno di questo dato, una possibilità su cento di morire, e una su cento di avere danni di lungo termine. Stiamo parlando di questo. A febbraio e marzo era ben diverso. Eravamo nel pieno della fase epidemica».
Cosa pensa delle polemiche sul rientro a scuola?
«Su un tema così delicato sono state fatte speculazioni inutili. Siamo tutti d’accordo che vadano aperte? Bene, le stiamo aprendo in condizione di grande sicurezza».
Proprio sicuro?
«Abbiamo il distanziamento, abbiamo le mascherine. Abbiamo comportamenti da adottare. Abbiamo professori che dovrebbero essere sensibilizzati, perché la fase di sorveglianza include anche loro. Abbiamo tutto. Non serve nient’altro. Abbiamo persino capito che la scuola all’aperto, o con le finestre aperte, si può fare».
Anche d’inverno a Bolzano?
«Perché, d’inverno la gente non va a sciare? Con le finestre aperte, la scuola è il posto più sicuro dove possono stare i nostri figli».
Ci sentiamo dopo il primo caso…
«Questa discussione andava fatta con grande tranquillità, prendendo esempio dai posti dove le scuole sono state già aperte. Come in Germania. Come in Usa, dal primo giugno. Hanno analizzato un milione e seicentomila bambini: solo settanta positivi. Sotto i 15 anni. Dai sedici in su sono come gli adulti».
In Germania, alcune scuole hanno aperto e poi richiuso.
«Una percentuale comunque piccola. Apriamo senza isteria, senza sovrastimare i segni, senza creare altre psicosi, che ce ne sono già abbastanza».
Dunque, andrà tutto bene?
«Qualcosa rischiamo, qualcosa accadrà. Un po’ di scuole dovrà chiudere? Amen, fa parte della sorveglianza. Chiudiamo e riapriamo. Cerchiamo di essere seri. Tutti parlano di governo, tutti hanno una risposta per tutto. Nessuno sottolinea l’importanza della responsabilità personale».
Anche lei negazionista?
«Ma proprio no. Cerco solo di stare ai fatti, e di leggerli in modo corretto, senza farmi prendere dall’emotività».