Coronavirus, il dramma familiare lungo sei mesi: 150 mila anziani sono ancora isolati nelle Rsa

Da febbraio nessuno ha messo mano alla riforma dell’organizzazione degli ospizi. Il figlio di una paziente: «Gli effetti collaterali potrebbero anche essere più dannosi del contagio»

L’annuncio dell’Istituto superiore di sanità offre una speranza agli anziani e ai loro familiari. Per sei mesi sono stati divisi da una barriera insormontabile. Ancora oggi gli ospiti delle Rsa si sentono soli, abbandonati, non comprendono cosa stia succedendo intorno a loro. E quindi le condizioni di salute, inevitabilmente, peggiorano. Dall’altro lato della barricata ci sono i parenti: impotenti di fronte a disposizioni che impongono loro di non poter far visita ai propri cari, di non potersi prendere cura di genitori e nonni che prima della pandemia assistevano regolarmente. Sono ormai passati sei mesi da quando le residenze sanitarie assistenziali hanno vietato ogni accesso esterno in struttura nel tentativo, purtroppo risultato vano, di non far circolare il virus. Da giugno in alcuni casi le visite sono riprese, rispettando protocolli rigidissimi e solo per una volta a settimana. In moltissimi altri non sono ancora ripartite. «In Italia ci sono circa 300 mila persone ospitate nelle Rsa. Di queste circa la metà da febbraio non ha più potuto incontrare i propri cari», racconta Michele Assandri, responsabile piemontese e consigliere nazionale dell’Anaste, l’associazione strutture per la terza età.

Grazie ai nuovi protocolli annunciati dall’Iss, ora Giuseppe Panero potrà finalmente vedere la madre di 81 anni ospite in una struttura del Cuneese: «È da febbraio che si trova una situazione di isolamento e carcerazione: non solo non posso abbracciarla, non posso nemmeno parlarle al telefono perché ha problemi di udito».

Dalla fine del lockdown non hanno più riaperto alle visite le strutture che non hanno uno spazio esterno o isolato dove poter gestire gli incontri e quelle che hanno ancora casi Covid. «Praticamente il 50% delle Rsa è chiuso ai familiari e le visite sono riprese solo a discrezione e grazie al coraggio dei direttori sanitari», spiega Assandri. Nel decreto Rilancio il governo dava incarico all’Istituto superiore di sanità di elaborare linee guida per la riapertura: sono arrivate, ieri, dopo una lunga attesa. Nei mesi scorsi alcune Regioni avevano ribadito che è responsabilità delle direzioni sanitarie regolamentare questo aspetto. Altre, invece, avevano deciso di normare dando indicazioni su come si possono svolgere gli accessi. «L’aspetto più drammatico è che da febbraio a oggi nessuna amministrazione ha messo mano alla riforma dell’organizzazione delle Rsa», continua il rappresentante Anaste.

In generale le visite devono avvenire in luoghi sanificati, per un tempo mai superiore ai 30 minuti, con un solo parente, una volta a settimana e a distanza di un metro e mezzo. Alba Malara, direttore sanitario di quattro strutture in Calabria e rappresentante per il Sud Italia racconta che ha aperto sotto la propria responsabilità all’inizio di giugno ma poi a luglio, quando il contagio ha ripreso ad aumentare, ha deciso nuovamente di chiudere. «Avevo avviato procedure con un triage telefonico, ingresso separato e in una sala dedicata con plexiglass a impedire il contatto fisico. La separazione con il pannello è stata vissuta ancora peggio dagli anziani rispetto alle video-chiamate, per coloro che potevano farle e che sono riusciti a comprendere la situazione», spiega la dottoressa. In alcune Rsa i pensionati sono stati seguiti da un’equipe che li aiutasse a superare il senso di abbandono. «Per le persone affette da demenza la mancanza di contatto è stata ancora più drammatica», spiega Malara, che ammette: «Anche per noi sanitari è difficile non ricevere le visite dei parenti. Innanzitutto perché ci aiutavano durante i pasti. E manca poi un confronto per risolvere insieme i problemi». Una situazione che, per l’Anaste si poteva evitare se le Regioni avessero attivato tamponi sistematici per gli ospiti e gli operatori ogni 15 giorni. «Così si sarebbero potute aprire le residenze perché si sarebbe potuto monitorare l’andamento dell’infezione. Invece nessuna Regione si è assunta l’onere di farlo».

Ora Giuseppe Panero si prepara alla prima visita dell’anziana madre: «Purtroppo in un periodo così prolungato, gli effetti collaterali rischiano di essere più dannosi del rischio di contrarre il virus. Un ragionevole compromesso tra queste due esigenze avrebbe dovuto essere una necessità».

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