Realismo Magico Il Novecento torna indietro

di Vincenzo Trione

Uscita dalla Grande guerra, insanguinata, ferita a morte, sommersa dalle macerie, l’Europa sta per entrare nell’incubo delle dittature. Come rapportarsi a questi scenari? I membri del movimento del Novecento si fanno aedi del regime fascista, proponendo uno stile anacronistico e monumentale. Gli animatori della Nuova Oggettività preferiscono profanare mitologie e ritualità, ordinando una commedia umana deformata e quasi inumana. Su un sentiero diverso si muovono gli eccentrici protagonisti del Realismo Magico, per i quali è ora allestita una mostra, curata da Gabriella Belli e Valerio Terraroli, nella sede del Palazzo Reale di Milano (fino al 27 febbraio). L’esposizione è dedicata alla memoria della giornalista del «Corriere della Sera» Elena Marco, scomparsa a 53 anni il 9 dicembre dell’anno scorso.

Siamo davanti a un’esposizione esemplare, ben documentata, basata su una ricca campagna prestiti, accompagnata da apparati informativi chiari e rigorosi, con un allestimento (dell’architetto Mario Bellini, che è stato marito di Elena) misurato ed emozionante.

L’itinerario si articola in alcune traiettorie principali. Primo capitolo: il preludio del Realismo Magico, documentato attraverso le opere dipinte, tra gli altri, da Carrà, de Chirico, Casorati, Severini, Sironi, Oppi, Funi.

Secondo capitolo: si ripercorrono le tappe principali di questo rassemblement teorizzato da Massimo Bontempelli. Non un gruppo omogeneo e compatto, con un leader, una teoria estetica e manifesti programmatici, ma una tendenza trasversale, diffusasi rapidamente nei primi anni Venti (l’acme viene raggiunto nel 1925), in sintonia con istanze simili in Germania e Austria. Una comunità aperta in cui confluiscono personalità solitarie diverse e lontane che, in alcuni momenti, si incrociano, creando reti di relazioni poetiche e umane: è il caso di Carrà, di Casorati, di Oppi, di Funi, di Donghi e di Cagnaccio di San Pietro.

Terzo capitolo: si svelano le assonanze tra le ipotesi dei realisti magici e quelle avanzate dalla Nuova Oggettività. Infine, si approfondiscono alcuni generi prevalenti e alcuni luoghi frequenti in sale di carattere tematico (sul paesaggio, sull’eros, sui giochi, sulle figure umane, sulle nature morte).

Siamo invitati a intraprendere un viaggio che segna il (parziale e provvisorio) declino delle avanguardie primonovecentesche. Addio ad alcuni miti: futurismo, nichilismo, attivismo, antagonismo, dinamismo. Addio anche ad alcuni valori: cesura, frattura, interruzione, novità, sperimentazione. Per uscire dalla sbornia avanguardistica, i realisti magici avvertono il bisogno di risalire alle origini della pittura italiana: verso le «ere primordiali» (come scrive Carrà nel 1916), verso i «primitivi», verso gli antichi maestri, verso il museo. «Ritorno», la parola d’ordine. Ritorno verso dove? Verso una classicità più immaginata che concreta.

Nasce così uno stile contraddittorio, ibrido. A questa ambiguità rimanda lo stesso nome Realismo Magico. Un ossimoro. Come un dilemma. Una negazione in termini: si pongono accanto un concetto e il suo contrario. Da un lato, il realismo, inteso come bisogno di sottrarsi ai tranelli dell’astrazione, per conquistare la «prosa del mondo» e per dedicarsi a drammaturgie caratterizzate da un candore arcaico, abitate da personaggi ben definiti nelle loro fisionomie, posti dentro architetture, paesaggi o interni fermi, austeri, di immediata leggibilità, resi attraverso artifici compositivi debitori della tradizione rinascimentale. Dall’altro lato, la magia. Si tratta di un termine sul quale, in quegli anni, tanti artisti si stanno interrogando. Tra gli altri, Giorgio de Chirico, il quale, come si legge in un articolo dedicato a Renoir, è sorretto dall’idea secondo cui «il pittore, quando non è pretto grullo, ha sempre qualcosa del mago e dell’alchimista»: parte dal visibile per portarsi verso l’altrove. Una convinzione che viene ribadita da Alberto Savinio, il quale ama descrivere l’arte del padre della Metafisica come un tentativo per giungere oltre la consistenza muta delle cose: egli, scriveva, «è il pittore moderno, ma più precisamente il mago moderno».

A queste suggestioni teoriche si richiamerà Massimo Bontempelli, compagno di strada di tanti pittori: «Precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta. In questo senso abbiamo chiamato l’arte nostra “realismo magico”». Ove si ricordi che la magia, sottolinea ancora Bontempelli, non è solo stregoneria: «Qualunque incanto è magia; il fondo dell’arte non è altro che incanto. La magia in istretto senso non è che arte allo stato grossolano».

Parole, queste, di cui potremmo servirci per accostarci alle opere dei realisti magici. In esse, non c’è memoria degli slanci dinamici futuristi. Non c’è l’azzardo degli accoppiamenti giudiziosi e stranianti suggeriti da de Chirico. Non c’è neanche la volontà di portarsi oltre la cornice del quadro, trasgredendo i limiti tradizionali della pittura. Infine, non cogliamo la rabbia ansiosa e il sarcasmo feroce delle allucinazioni dei neo-oggettivi tedeschi. Si spalancano, invece, le porte di un universo borghese. Ritratti di fanciulle. Amanti prive di erotismo. Orge senza passione. Giocolieri senza birilli. Oggetti anonimi. E, tuttavia, questi teatri ordinari sono «agiti» da un non-so-che: il presagio di un enigma, un’inquietudine sottotraccia. Riposte nella dimensione del senza-tempo, avvolte in uno «stupore lucido» (Bontempelli), scene e situazioni sembrano sottoposte a riprese intimamente anti-cinematografiche. Un fermo immagine solenne che, spesso, annulla ogni allusione a situazioni reali.

Si respira ovunque un’attesa interrotta, sottolineata da luci fredde, nordiche, quasi lunari, appena mosse da ombre. Una durata priva di vibrazioni e senza sviluppo, che sancisce un inatteso transito: pur verosimile, la vita viene congelata e sospesa, affinché ne affiori l’incantato e tragico mistero. È come se si avvertisse la mancanza d’aria nelle opere di questi artisti. Che condividono una necessità: sperimentare un modo alternativo per sentire, leggere, interpretare il presente. Infine, per reincantare la vita quotidiana. Fino a toccare le vette del meraviglioso.

Non siamo dinanzi a una fuga dal Novecento. Pur per vie laterali, senza enunciarlo, lontani da ogni intenzione ideologica, le voci del Realismo Magico sottolineano la propria distanza dalle liturgie del regime fascista. In fondo, le loro opere potrebbero essere lette (anche) come atti sofisticati di disappartenenza. Esercizi per non lasciarsi irreggimentare. Ipotesi per contestare la retorica e il monumentalismo cari a Mussolini e agli intellettuali a lui vicini. Poetiche riflessioni sui temi eterni dell’identità, dell’inquietudine, del perturbante. Dunque, una forma indiretta di arte politica.

 

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