di Letizia Gabaglio
Potremo curarci tutti come ha fatto Trump? Sì, forse già a partire dalla fine dell’anno. È arrivato infatti l’annuncio di una delle aziende in corsa per lo sviluppo della cura che è stata impiegata con il presidente americano: entro la fine dell’anno verrà prodotto un milione di dosi di bamlanivimab, di cui 300mila già opzionate dal governo Usa nel caso in cui si ottenga il via libera accelerato dell’Fda. L’azienda è Eli Lilly, e non Regeneron, quella che ha fornito il farmaco a Trump, ma il tipo di molecola è la stessa: un anticorpo monoclonale, una vecchia conoscenza della medicina, che li usa per i tumori e le malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide. Ma anche se negli Stati Uniti sembra che la corsa al farmaco sia più veloce è in Italia che si sta mettendo a punto l’arma più potente di questo arsenale.
Precisamente a Siena, dove Rino Rappuoli, a capo della ricerca di Glaxo Vaccines e del Mad Lab della Fondazione Toscana Life Sciences, stava lavorando già prima dello scoppio della pandemia a una tecnologia in grado di sviluppare armi super potenti.
Professor Rappuoli, gli anticorpi monoclonali contro il coronavirus sono speciali?
«Sì, perché sono un gioiello di innovazione tecnologica. Quelli usati in oncologia, per esempio, devono essere somministrati in grandi quantità e quindi per endovena, un approccio che nelle malattie infettive non si può usare.
Negli ultimi venti anni la tecnologia è andata avanti e oggi riusciamo a sviluppare anticorpi mille volte più potenti, che possono quindi essere usati in quantità mille volte inferiori e con un costo di conseguenza ridotto. Ecco perché, per la prima volta, possiamo usare gli anticorpi monoclonali anche per le malattie infettive».
È vero che il vostro anticorpo è il più potente?
«Sì, è il più potente fra quelli descritti finora dalla comunità scientifica. La potenza viene misurata in vitro dove mettiamo l’anticorpo insieme a delle cellule infettate con il virus: se per un millilitro di soluzione ci vuole un microgrammo di farmaco allora non è molto potente, se come nel nostro caso ce ne vuole solo un nanogrammo allora è estremamente potente. Questo fa una differenza enorme in termini di quantità che bisogna somministrare per avere un effetto: per il paziente è la differenza fra un’infusione in ospedale e una puntura a casa».
Una delle aziende che stanno studiando anticorpi per il Covid ha annunciato la sospensione dello studio che stava conducendo nei malati gravi. Gli anticorpi servono solo per prevenire o anche per curare?
«Gli anticorpi servono sia per prevenzione sia per migliorare le condizioni degli infetti. Se si danno a una persona sana la protezione scatta immediatamente, se li prende una persona con un tampone positivo si aiuta l’eliminazione del virus da parte dell’organismo. Certo, prima si prendono meglio è, così il virus viene eliminato e non può danneggiare l’organismo. La notizia della sospensione della sperimentazione sui malati gravi ci fa pensare che somministrare anticorpi quando la malattia ha già aggredito l’organismo non serva».
Quanto durerà la protezione data dagli anticorpi monoclonali?
«Il nostro anticorpo è stato selezionato in modo che duri a lungo, con una protezione di circa sei mesi. Questa però è solo la teoria, dovremo confermare questo dato negli studi clinici di fase 3, durante la sperimentazione clinica che vogliamo iniziare prima della fine dell’anno. Se tutto va secondo i piani, saremo pronti con il farmaco per marzo 2021».
Anche il plasma dei convalescenti contiene anticorpi, perché la vostra cura è migliore?
«Il principio è lo stesso: usare gli anticorpi, nel caso del plasma quelli sviluppati da chi è riuscito a sconfiggere il virus. Ma ci sono enormi differenze. Prima di tutto il plasma di qualità è difficile da reperire, i pazienti che hanno tanti anticorpi efficaci non sono molti, e poi dovremo augurarci che ci siano sempre dei pazienti a disposizione e noi questo non lo vogliamo.
Secondo, la sicurezza: quando usiamo il plasma dobbiamo essere sicuri che non contenga impurità».
Nel caso dei vaccini contro il coronavirus si è molto discusso della loro accessibilità, di quanto costeranno e di chi se li potrà permettere. Cosa succederà con gli anticorpi monoclonali?
«Stiamo lavorando da anni, anche insieme al Wellcome Trust di Londra, sul tema della resistenza batterica agli antibiotici, proprio per sviluppare una tecnologia che renda gli anticorpi più potenti così da poterne usare di meno e abbattere i costi. E renderli così accessibili anche a Paesi in via di sviluppo. Lo stavamo facendo da prima sul fronte dell’antibioticoresistenza e ora possiamo usare le nostre ricerche anche per il Covid».
A proposito delle vostre ricerche, da chi sono finanziate?
«Prima di febbraio il laboratorio stava studiando tecnologie in grado di creare anticorpi monoclonali contro gli antibiotici resistenti ai farmaci grazie a un finanziamento europeo. Quando è scoppiata la pandemia abbiamo riconvertito le nostre ricerche. In questi mesi ci ha finanziato prima la Regione Toscana, poi la European Investment Bank e ora stiamo cercando finanziamenti per condurre la sperimentazione sull’uomo».