A Roma, tra l’agosto e il settembre 1514, nel corso di lavori in un convento di suore vicino a Sant’Ignazio nella zona di Campo Marzio, viene alla luce un gruppo di statue che raffigurano soldati per lo più nudi, alcuni morti, altri feriti, altri ancora in atteggiamento di combattimento. Si tratta di un ritrovamento di importanza pari a quella del Laocoonte nel 1506. Queste figure, poco più piccole del naturale, affascinano collezionisti, letterati e artisti. Ritenute al tempo immagini degli Orazi e Curiazi, sono oggi identificate come copie romane (I a.C. oppure II d.C) di statue bronzee dei Galati sconfitti dagli Attalidi di Pergamo originariamente poste nel Piccolo Donario dell’Acropoli di Atene. Sette di queste statue vennero collocate nel settembre 1514 da Alfonsina Orsini nel palazzo romano (l’attuale Palazzo Madama) in cui la donna risiede grazie all’ospitalità del cognato, papa Leone X. Altre tre entrano nella collezione del cardinale Domenico Grimani che nel 1523 le lascia in eredità allo Statuario pubblico di Venezia.
Raffaello Sanzio da Urbino (1483-1520), che nel 1514 è a Roma e, tra le altre imprese, lavora nelle commesse del pontefice Leone X (1513-1521), trae ispirazione da alcune di quelle statue dei Galati in una serie di disegni a carboncino su carta che si trovano in parte all’Ashmolean Museum di Oxford e in parte nella collezione della regina Elisabetta II a Windsor Castle. L’osservazione cruciale è che questo nuovo repertorio figurativo desunto dalle sculture entra, con ulteriori rielaborazioni, nella grande impresa che Raffaello sta eseguendo in Vaticano nelle stanze del pontefice, in particolare nella Stanza di Eliodoro, cui lavora tra il 1510 e il 1514. Non vi è un documento che attesti che Raffaello abbia preso visione delle statue dei Galati ritrovate a fine estate 1514. E tuttavia, il 15 agosto 1514, Raffaello racconta in una lettera all’amico Fabio Calvo di come «messer [Andrea] Fulvio nostro,… di questi dì ciercando le belle anticalie [che] stanno per queste vignie e le retraggo de mia mano per ordine de nostro signiore».
Come ho dimostrato nel saggio appena pubblicato nella Collana Enzo Grilli della Fondazione Ugo La Malfa, la data del ritrovamento delle sculture stabilisce quindi un nuovo termine post quem per l’esecuzione degli affreschi di Raffaello nella Stanza di Eliodoro. In questa stanza, Raffaello dipinge sulle pareti quattro scene di interventi miracolosi di Dio a sostegno della Chiesa romana. L’artista inizia l’impresa durante il pontificato di Giulio II della Rovere (1503-1513): nella Messa di Bolsena, il papa della Rovere è raffigurato con la barba che ha fatto crescere a metà del 1511 come voto alla Vergine per la perdita di Bologna. L’ideazione ed esecuzione dell’affresco deve deve collocarsi tra il 1511 e il 1513, e più probabilmente nel 1512, data che appare nella strombatura della finestra sottostante. La critica è anche concorde che l’ideazione dell’Espulsione di Attila si colloca tra il 1511 e il 1513, perché la figura di Giulio II con la barba è inclusa in due disegni preparatori, mentre l’esecuzione è completata dopo il 9 marzo 1513, perché nell’affresco appare Leone X, ed entro il 1514 data iscritta sulla cornice della porta sottostante.
Circa la Liberazione di San Pietro, si è finora ritenuto che l’affresco si debba datare agli anni di Giulio II. La genesi risale senz’altro al pontificato di papa della Rovere che da cardinale era stato titolare di San Pietro in Vincoli, luogo delle reliquie del primo Vescovo della Chiesa di Roma. E tuttavia nell’affresco, splendido per la modernità della tecnica d’esecuzione del notturno illuminato da bagliori di luce terrena e divina, Raffaello utilizza molteplici motivi figurativi desunti dalle statue ritrovate a Campo Marzio. Il soldato seduto sulle scale, in basso a sinistra della prigione, terrorizzato, le gambe divaricate e il volto girato di scatto verso la spalla rielabora uno dei disegni a carboncino di Windsor Castle. Il soldato davanti a lui, che spinge la schiena e il braccio in avanti, trae l’invenzione dalla vista da posteriori della stessa statua. Il soldato in piedi, che si copre la testa per difendersi dall’improvvisa luce divina, è l’elaborazione di un’altra statua del gruppo dei Galati studiata in un altro foglio di Windsor Castle. Il soldato nell’oblio del sonno, appoggiato al muro, le gambe divaricate e semi stese sui gradini della prigione, il braccio e la testa abbandonati verso il basso, è una rielaborazione del Galata morto, oggi a Napoli, anch’esso esaminato in uno studio di figura di Windsor Castle.
Dunque la Liberazione di San Pietro venne completata dopo l’estate del 1514. Una conferma di questa datazione viene dall’iscrizione con la data 1514 dipinta nella strombatura della finestra sotto l’affresco e da tre riquadri del peduccio della volta sopra l’affresco nei quali vi sono figure con simboli dell’araldica medicea.
Quanto all’affresco della Cacciata di Eliodoro, Raffaello include un ritratto di papa Giulio II con la barba nel margine sinistro della parete, ma, nella metà opposta, inserisce il nuovo repertorio figurativo tratto dalle sculture dei Galati: Eliodoro è desunto dal disegno ispirato al Galata morente oggi a Napoli; il soldato semi-nascosto alle sue spalle, che porta la mano destra alla spada, riprende la figura del Galata combattente, mentre la testa è desunta da quella del Gigante morto. Il volto del Galata combattente (oggi al Louvre) è usato per rappresentare l’autorità divina nel volto dell’angelo inviato da Dio. Raffaello può avere cominciato l’affresco decidendo di includere il ritratto di Giulio II, assente nello studio preparatorio (noto attraverso una copia oggi all’Albertina di Vienna), per terminare la metà di destra, dove appaiono i soldati ispirati ai Galati, nel 1514, data apposta anche sul cartiglio dipinto sopra la porta, in corrispondenza con la figura di Giulio II.
I soldati della Cacciata di Eliodoro, che, peccando di hubris, sono colpiti dalla vendetta di Dio, e quelli vinti dalla potenza divina della Liberazione di San Pietro, sono creati da Raffaello nel 1514 attingendo al repertorio figurativo e al ragionamento innescato dalla scoperta e dallo studio delle sculture del gruppo dei Galati.
Dunque l’utilizzazione del gruppo dei Galati negli affreschi della Stanza di Eliodoro definisce precisamente la questione cronologica. Rimane però un problema: i dati di restauro della Stanza di Eliodoro, pubblicati da Paolo Violini nel 2017, in un volume a cura di Antonio Paolucci, Barbara Agosti e Silvia Ginzburg sui restauri degli affreschi di Raffaello in Vaticano, hanno portato alla sorprendente constatazione che lo stemma di Leone X, originariamente dipinto sotto la Messa di Bolsena, è stato ridipinto con quello del suo predecessore. Come può spiegarsi questa incongruenza? Possono l’artista e il suo committente aver voluto sostituire lo stemma della più alta carica della Chiesa con quello del suo defunto predecessore? Violini ipotizza giustamente che si tratti di un tributo di Leone X al predecessore, ma certo su questo punto saranno necessarie ulteriori riflessioni e ricerche.
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Claudia La Malfa