La Fondazione Re Rebaudengo di Torino allestisce tre percorsi che riflettono le mutazioni delle nostre identità
di Olga Gambari
torino
La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino da tempo è diventata un laboratorio dove coesistono progetti di natura diversa, con una grande attenzione all’educazione, ai giovani intesi come cittadini in crescita e spettatori attivi. Declinazioni di un’arte contemporanea che vuole essere figura presente e proponente del tempo in corso. Mostre, incontri, workshop e una rete di collaborazioni con istituzioni pubbliche e private, che estendono i confini della fondazione voluta da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo ventisei anni fa, trasformandosi da collezionista in una delle figure che ArtReview colloca nella classifica dei Power 100. Fino al 27 febbraio, tre mostre in dialogo esplorano un mondo in transizione tra passato e futuro; si interrogano su cosa significhi corpo e memoria oggi, e, di conseguenza, sui temi urgenti e sensibili di genere, di parità, di inclusione/esclusione, così come sulle forme striscianti e mutevoli di razzismo e di post-colonialismo, che sono spesso dinamiche introiettate e dormienti, ambigue e manipolatorie, nell’individuo come nella collettività. Si tratta di navigare nel profondo, scendere in quello che si potrebbe definire il deep dark del nostro tempo, non sempre piacevole da scandagliare, poco rassicurante e con specchi che mostrano facce, le nostre, che sono ritratti di Dorian Gray. E si tratta di spellarci, letteralmente, rendendoci conto come il corpo continui ad essere il luogo reale e storico di una battaglia all’ultimo sangue, una lotta politica che riguarda tutti, con al massimo sette gradi di separazione gli uni dagli altri.
La collettiva Stretching the Body è un viaggio nella pittura di dieci artiste, generazioni diverse, che sradica definitivamente il preconcetto di medium anacronistico e solipsistico verso questo linguaggio: opere potenti, di grande formato e una contaminazione di stilemi che abbraccia il Novecento. Va in scena la continua oscillazione della figura umana tra essere soggetto e oggetto, tra la libertà dell’autodeterminazione e la segregazione della costruzione sociale.
Le artiste mostrano corpi – e anime, sogni, esperienze, radici – decostruiti e ricostruiti, giocando con l’espressione streching the canvas, cioè preparare la tela. Avery Singer si misura con la storia dell’arte e la tridimensionalità del quadro, Anj Smith ritrae creature così fluide da sfidare il passaggio tra la vita e la morte, Jill Mulleady lavora su doppia tela con gruppi umani in interni, alienati dalla solitudine. Con loro, Giulia Andreani, Louise Bonnet, Jaclyn Conley, Celeste Dupuy- Spencer, Jana Euler, Mernet Larsen, Wangari Mathenge, Christina Quarles, Ambera Wellmann e Rose Wylie.
Safe House è il titolo della seconda collettiva, preso in prestito, invece, da quei luoghi invisibili dove gruppi o persone a rischio vengono nascoste e protette. Anche loro sono voci, e vite, in bilico, al centro di un disegno sociale dominante che le considera anomalie, pericoli, vergogne. Opere dalle voci forti ma non gridate, come la doppia Black Flag di Arthur Jafa, un drappo funerario dedicato alla democrazia americana: la bandiera degli Stati Confederati, che combatterono per mantenere la schiavitù e continuano ancora oggi, con lo stesso spirito degli incappucciati del Ku Klux Klan, si sovrappone e nasconde scenograficamente quella degli Stai Uniti. Il veleno del conflitto razziale è il male endemico del sogno americano. Nell’installazione di Sharon Hayes, ciclostili della comunità Lgbt prodotti in clandestinità nel periodo 1955-1972 sono ristampati e letti pubblicamente da figure che rendono viva la memoria e l’attualità dei temi toccati. Nei ritratti fotografici di un giovanissimo gruppo queer, Tobias Zielony mostra come la scelta degli abiti, del trucco, della posa siano profonde dichiarazioni di identità. Altre riflessioni vengono dai lavori di Sandra Mujinga, Muna Mussie, Ho Tzu Nyen, Samson Young.
Terzo capitolo, l’installazione immersiva di Martine Syms, Neural Swamp, un ambiente dove l’intelligenza artificiale compartecipa all’autorialità dell’opera, per dimostrare la non neutralità del mondo digitale, ma il suo potenziale razzismo, se l’algoritmo è programmato da una white supremacy che non contempla la tonalità della voce nera e quindi non la riconosce. Il razzismo più pericoloso è quello che alberga nelle pieghe.