TOMASO MONTANARI
Nella Cappella Brancacci della chiesa del Carmine, l’opera di Masaccio La più popolare, reale, carnale Madonna lasciata in eredità dalla nostra arte Immagine ideale per rappresentare lo spirito di queste feste ieri come oggi
«E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv, 1, 14).
Comunque la si pensi, in qualunque cosa si creda o non si creda, il Natale è la festa della nostra carne: cioè della nostra realtà, della nostra debolezza, della nostra fragilità.
Si celebra il Dio lontano che viene a piantare la propria tenda fra gli uomini, che ne assume la carne e dunque ne condivide il destino: il Dio che, umanizzandosi, divinizza l’uomo.
Se dovessi allora scegliere una immagine fiorentina del Natale, sceglierei quella che vedete. Fuori dal suo contesto, e introdotta da queste parole, essa potrebbe ben passare per una Madonna col Bambino: e in un certo senso forse è giusto leggerla così, come la più popolare, povera, reale e dunque carnale Madonna della nostra storia dell’arte.
È, infatti, l’immagine di una donna povera: di una marginale, di una mendicante (oggi sarebbe una migrante), che tende la mano per avere qualche soldo con cui sfamare se stessa e il piccolo (mezzo nudo, imbronciato, antigrazioso: anzi, decisamente brutto) che porta in collo. E siccome Gesù dice (per esempio in Matteo, 25, 40) che ogni volta che faremo qualcosa di buono a un povero, l’avremo fatta a lui, è naturale leggere una madonna in quella madre povera.
Ma la ragione per cui questa è una perfetta immagine del Natale, non è legata solo a quello che rappresenta: ma anche, o forse di più, al modo in cui è dipinta. Essa è, infatti una delle più forti, e più alte, figure uscite dal pennello e dalla mente di Tommaso di ser Giovanni di Mone di Andreuccio, che tutti conosciamo e amiamo con il soprannome di Masaccio.
Questo gigante, questo «Giotto reborn» (Berenson) capace di rovesciare le sorti della pittura occidentale in una vita che non arrivò a durare ventisette anni, riuscì a far scorrere nei suoi colori «il vivo e il naturale» (Vasari). E in nessun luogo come sulle pareti della Cappella Brancacci della chiesa del Carmine, nel cuore dell’Oltrarno fiorentino: una «opera perfetta», per descriverla con le parole che Leonardo da Vinci usò per descrivere tutta la pittura di Masaccio.
«E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi»: parole capaci di descrivere con totale aderenza critica quel “natale della pittura” che è la Cappella Brancacci (1424-27 circa), dove la storia sacra si fa carne, diventa vicina agli uomini, si fa prossima come mai era accaduto nella pittura di nessun’altro, nemmeno in quella di Giotto stesso. Qui Masaccio segue, «quanto e’ poteva, le vestigie di Filippo e di Donato, ancora che l’arte fosse diversa» (Vasari): è di Brunelleschi lo spazio reale, e abitabile, uno spazio in cui i corpi hanno peso, spessore e gettano ombra; ed è di Donatello la credibilità degli umani, il loro carattere, il rapporto piscologico che li lega e li fa vivi più dei vivi che li guardano. Ma è di Masaccio, solo sua, la scelta di usare quello spazio e quello spirito nuovi per innalzare sui muri di una chiesa la carne della vita più umile e quotidiana. Nei riquadri della Cappella Brancacci, san Pietro e gli apostoli si muovono, predicano, fanno miracoli nelle strade dell’Oltrarno che circondano il Carmine, e nella stessa piazza di fronte alla basilica: sono quelle le case, semplicemente imbiancate di calce, quelli i volti, quelli i poveri cristi a cui veniva distribuito il pane dai fornai riuniti nella confraternita di Sant’Agnese, che proprio al Carmine aveva sede.
È la carne di Firenze: glorificata per sempre in uno dei pochi angoli in cui ancora oggi si può sentire palpitare una carne viva e vera. Non per caso poco tempo fa al Giardino Nidiaci, che è nello stesso grande isolato del Carmine, i cittadini hanno deciso di appendere proprio una riproduzione della nostra madonna povera di Masaccio, spiegando che «Prescindendo dal simbolismo religioso (al giardino vengono cattolici,musulmani, sikh, laici, evangelici ed ebrei), vogliamo ricordare questo straordinario quadro della nostra stessa Comunità che si organizzava da sé e affrontava i propri bisogni in solidarietà.
Seicento anni fa come oggi». E non è una forzatura storica: commentando i due riquadri della Brancacci con San Pietro che risana con l’ombra e con la Distribuzione delle elemosine, Aldo Galli ha parlato del «protagonismo dei miserabili», notando come «al livello sommo dei pezzenti le cui teste frementi di dignità dolente nessun altro pittore del Quattrocento saprà mai eguagliare, non corrisponde la tenuta del gruppo dei ‘santi’».
Era successo che, partito ormai Masolino per l’Ungheria, Masaccio aveva evidentemente assunto qualche aiuto, inevitabilmente non al suo livello: e contro l’ovvia gerarchia aveva affidato a queste anonime mani le figure di san Pietro e degli apostoli, riservando a se stesse quelle degli storpi, dei malati, dei disgraziati. Con quell’inversione di gerarchia che è l’essenza stessa del Natale: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Matteo, 11, 25). E la pittura si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi: bisognerà aspettare quasi due secoli perché in un’altra cappella italiana – la Contarelli di Michelangelo Merisi da Caravaggio, nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi – la carne e il sangue dell’umanità dolente tornassero sugli altari. E fu, un’altra volta, Natale.