Il presidente Mattarella interviene con parsimonia, si rivolge al pubblico affrontando temi essenziali, evita parole eccessive, svolge argomenti civili. Il suo stile impone un lavoro da parte di chi lo ascolta, un approfondimento e uno sviluppo. In mancanza di questa partecipazione si lascerebbero cadere – proprio perché discrete – parole e richiami fondamentali. È recentissima la sua dichiarazione sul manifesto della razza firmato nel 1938, precursore delle leggi razziali. Il presidente ha detto che «il veleno del razzismo continua a insinuarsi nelle fratture della società e in quelle tra i popoli. Crea barriere e allarga le divisioni». Non si tratta dunque solo di ricordare un fatto storico, ma di avvertire che il pericolo è sempre presente. Anche ora. Naturalmente non è mancato, anche questa volta, chi ha protestato sostenendo l’impossibilità di assimilare l’attualità italiana al razzismo fascista e nazista antiebraico e contro i rom e i sinti. Un’assimilazione certo assente nell’intervento del presidente. Le differenze sono evidenti. Tuttavia è utile la ricerca dei meccanismi che sono alla radice del razzismo. Essa conduce a conclusioni inquietanti. Il primo, indispensabile passaggio è la generalizzazione: l’attribuzione a un gruppo intero dei caratteri presenti in alcuni di coloro che ne fanno parte, dei fatti e misfatti compiuti da alcuni di costoro. Il meccanismo porta ad affermare il pregio di un gruppo intero o a squalificarlo, a seconda della qualità positiva o negativa della condotta degli individui presi ad emblema del gruppo intero. L’esperienza indica che si tratta di un errore. La responsabilità o il merito sono sempre individuali. Gli italiani dovrebbero essere particolarmente sensibili a questo proposito. Diffusa è fuori d’Italia l’idea che «gli italiani» siano mafiosi, inaffidabili, scansafatiche, ecc.; con il corollario della sorpresa che suscita l’incontro con italiani che non rispondono a quel modello. Il giudizio positivo o quello negativo su un intero gruppo passa attraverso la generalizzazione e l’estensione a tutti del carattere e della qualità che in realtà si dovrebbe attribuire solo agli individui, tanti o pochi che siano. Posizioni politiche emergenti e sostenute da un linguaggio spesso violento e sprezzante, sono ora in primo piano, in Italia e in Europa. Si fondano sullo schema del «noi» e del «loro». Sono fatte per creare barriere e allargare divisioni. Negano l’idea stessa di un’umanità comune a tutti, mentre contrappongono i gruppi: virtuoso il «nostro», più meno spregevoli gli «altri». Con l’ovvia e naturale conseguenza nell’indirizzo politico e nella vita sociale, che si riassume nell’orgoglioso slogan che dice: prima gli italiani. Sempre e comunque. Per quanto riguarda i migranti, poi, si è arrivati a gettare l’allarme addirittura per un’invasione capace di produrre un’aggressiva sostituzione etnica. Non più «noi», ma «loro» al posto nostro. Ma accanto alla discussione sul senso che può avere l’identificazione dei tanti «loro», va pur posta la domanda sul «noi». Noi, chi? Spiacevole far nomi, naturalmente, per riconoscersi o per rifiutare l’assimilazione, ma quale omogeneità c’è in un intero Paese, Italia o altro? In realtà ciò che unisce nel carattere delle persone o che, anche radicalmente, le rende diverse, attraversa confini e appartenenze a gruppi, nazionali o etnici che siano. È esperienza (e piacere), che in molti regolarmente proviamo, il trovare comunanza di visioni del mondo e della vita con persone che, secondo lo schema della divisione nazionale o etnica, sarebbero dei «loro». E naturalmente l’esperienza (e il fastidio) per il modo d’essere, parlare e agire di chi pur apparterrebbe, secondo quello schema, al gruppo del «noi». Nella logica della separazione in gruppi alternativi, il solo porre la domanda su chi appartenga al «noi» espone all’accusa di tradimento. Accanto alla prospettiva del razzismo, si vede quella dell’emarginazione e della persecuzione per chi non si adegua. Distinguere sempre, considerare le singole persone, rifiutare omologazioni forzate basate sul colore, sulla lingua, sulla religione, sull’origine è un dovere imposto dall’esperienza prima ancora che da ragioni etiche di rispetto della persona umana in quanto tale. Eppure assistiamo al contrario. Ecco allora che l’avvertimento del presidente è necessario e va preso sul serio, poiché è vero che il veleno del razzismo continua a insinuarsi nelle fratture della società e in quelle tra i popoli. Il veleno della generalizzazione e del rifiuto di distinguere sembra neutro all’inizio: neutro e innocuo anche se sbagliato. Ma la storia dovrebbe insegnare, in Italia e in Europa, che porta drammaticamente lontano.