Quel che resta di Firenze

Trasformazioni La lunga onda del turismo, la parte storica diventata vuoto in pochi decenni. L’analisi di Franco Camarlinghi che con un suo testo profetico del 1989 ha ispirato un libro che guarda al futuro

 

Un racconto su Firenze com’era prima della pandemia e sul modello nuovo da cui dovrebbe ripartire, per sottrarsi al rischio di devastazione del turismo di massa e recuperare la consapevolezza di poter essere una città-guida. È il libro «Lo Shock di Firenze — La vera pandemia di una città e 4 ‘vaccini’ + 1 per affrontarla» (Nuova editoriale Florence press), composto di più saggi a firma di Franco Camarlinghi, Stefano Fabbri, Marcello Mancini, Massimo Tommaso Mazza e Leonardo Tozzi. L’ispirazione è un testo di Camarlinghi del 1986 che nell’analizzare la storia della città dal dopoguerra evidenziava il cedimento delle classi dirigenti a una visione della città fondata sullo sfruttamento della sua grandezza storico-artistica a vantaggio di commerci per lo più di bassa lega e del turismo di massa. In questo articolo Camarlinghi riflette sulla trasformazione della città.

Giuliano Procacci, uno degli storici più importanti dell’Italia del secondo novecento, insegnava a Firenze negli anni 70 del secolo scorso. Eravamo diventati amici, ben oltre la comune appartenenza politica: imparavo molto da una frequentazione che diventò rapidamente quasi quotidiana e nella quale Giuliano smetteva completamente i panni del Professore e dell’Accademico. Amava molto Firenze, ma ne avvertiva una certa dimensione provinciale e, dopo qualche anno, sarebbe tornato a insegnare a Roma, dove peraltro aveva sempre avuto casa.

Una dimensione provinciale e soprattutto retorica che, forte della grandezza del passato, finiva quasi sempre per confondere la grande epoca che fu con un presente incomparabilmente più modesto. Spesso mi prendeva in giro, per la mia faccia che secondo lui era molto «fiorentina» (non nel senso della bistecca, suppongo) e mi consigliava di andarmene dalla mia città per un certo tempo, in modo da liberarmi da quel velo di retorica che, a dire la verità, anche la mia generazione sentiva come un peso sempre presente.

«Devi cambiare aria, altrimenti ti ritroverai da vecchio a sedere su una panchina fra un monumento e l’altro della grandezza passata, a guardare i tuoi simili, fiorentini, come te convinti di essere al centro del mondo, invece che all’angolo di via dei Benci con Corso dei Tintori».

Mi scuseranno i lettori se l’ho fatta lunga su questo ricordo, ma mi è venuto in mente appena ho pensato di scrivere su quello che è cambiato da 1986 a oggi. Lì per lì mi sarebbe venuto di dire quasi niente, poi le parole riaffiorate di Giuliano mi hanno fatto mutare idea.

Una cosa è cambiata: io potrei trovare una panchina dove sedermi e fare il fiorentino agé che guarda chi gli passa davanti, ma di indigeni ne vedrei pochi o punti, a seconda delle stagioni, e i viandanti forestieri non avrebbero nessuna idea di essere al centro del mondo, invece che in una delle tante mete turistiche, anche se fra le più ambite.

Ecco cosa è cambiato davvero a Firenze, o meglio nella sua parte storica; quello che per tanti secoli era stato un pieno, in pochi decenni è diventato un vuoto.

Vi ricordate le pagine del Quartiere di Pratolini, quando dopo i pretesi risanamenti del fascismo, cioè le distruzioni di quel tessuto antico che andava dall’attuale Piazza dei Ciompi a Piazza Salvemini, agli abitanti delle vecchie case viene offerto di trasferirsi altrove e tutti rifiutano e si stringono nelle abitazioni dei parenti, pur di non lasciare la loro parte di città? Si trattava di zone povere di tutto, ma non di una cosa: un’identità che, malgrado tutte le miserie e le difficoltà, restava una forte ragione di vita. È stato così per molto tempo ancora. Dopo l’alluvione la residenza popolare in parte resisté nel centro storico, anche se i piani bassi videro l’abbandono da parte delle attività di lavoro che fino ad allora avevano mantenuto una relazione stretta fra casa e lavoro stesso: il senso vero della città, anche nella mutazione delle forme e delle tecnologie.

Poi l’onda del turismo ha travolto ogni possibilità di resistenza come quella che abbiamo ricordato. Questo è cambiato: chi ha lasciato il centro per motivi economici o di altro tipo di difficoltà, non ha nostalgia di non vivere più in un ambiente sociale che non ha ormai alcuna identità se non quella dello sfruttamento turistico di un grande e lontano passato.

Una realtà che non mantiene neppure quel modo di essere provinciale su cui ridevamo tanti anni fa con Giuliano Procacci. La nostalgia di chi se ne va dal centro è solo quella delle antiche mura e dei monumenti, fra i quali ha vissuto e che non sono mai stati per lui una cartolina, ma un modo di dire al mondo: guardate che fortuna ho avuto!

Poi la città non è più stata sua e tutto è diventato diverso, ecco cosa è cambiato da quel lontano 1986. Possente è stata l’iniziativa dei poteri pubblici per consentire questo mutamento. Basta pensare al Palazzo di Giustizia in Piazza San Firenze. Il Palazzo è sempre lì, c’è anche un museo, ma non c’è più la vita. Lasciamo stare tutta la vicenda dell’Università: su questi due esempi e su tutti gli altri simili conviene leggere i contributi appassionati e competenti di Stefano Fabbri, di Marcello Mancini, di Massimo Tommaso Mazza e di Leonardo Tozzi (Lo Shock di Firenze La Vera Pandemia di una Città ).

Ci sono altri cambiamenti rispetto alla metà degli anni 80 del secolo passato che dovrebbero far riflettere sul futuro di Firenze chi ancora intenda farlo. Uno è la scomparsa del ruolo determinante degli intellettuali nel discorso pubblico, mentre prima Firenze era una sede privilegiata di tale ruolo, dentro e fuori dell’Università. Si potrebbe dire che la mia è un’affermazione superflua, perché il discorso pubblico in realtà non c’è più, o invece che di un fiume ha preso le dimensioni del Mugnone durante il periodo estivo.

In realtà la crescente debolezza dei partiti e delle stesse parti sociali lascia spazio solo al protagonismo di sedicenti leader che alla fine non rispondono che a sé stessi. Tutto ciò determina l’infuriare delle affermazioni apodittiche o consolatorie, la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive che ci aspettano dopo la pandemia, il Rinascimento: siamo o no a Firenze?

Ma quale Firenze?

Ecco l’ultimo vero cambiamento di cui quasi nessuno vuole prendere atto. Firenze non solo non è mai finita nel tempo contemporaneo al limite delle mura antiche e demolite, anzi nel tempo attuale le attività che determinano le possibilità di ripresa e di sviluppo economico e quindi anche culturale e sociale sono sempre più altrove rispetto al centro. La vasta periferia industriale, Sesto, Campi, Calenzano, tanto per dire, insieme a Piazza della Signoria, a Piazza Santa Croce, a Piazza Santo Spirito sono Firenze e finché non si capirà questo non ci sarà cultura politica all’altezza dei problemi che l’attualità pone. In quel lontano 1986 non era difficile intendere che ci si stava avviando verso una china che avrebbe finito per consumare il centro di Firenze e trasformarlo come è successo. Ma era facile far finta di non capire e così prepararsi a sfruttare fino alla fine la rendita assicurata da quella che Giacomo Becattini definiva, con indimenticabile ironica competenza economica, la principale Company fiorentina, quella degli incolpevoli Botticelli e Michelangelo.

Chissà che la pandemia non porti a veri cambiamenti: il sottoscritto intanto va a prendere posto sulla panchina, ammesso che non sia stata già prenotata da un tavolino del ristorante di fronte .

 

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