Quel che resta delle catastrofi

La storia tende a registrare le guerre, ma a rimuovere le sciagure naturali Che invece cambiano le società. Come spiega la studiosa Gabriella Gribaudi
di Simonetta Fiori
Cosa ci ricorderemo del coronavirus? E perché le guerre rifulgono nella memoria pubblica mentre le catastrofi naturali vengono dimenticate? Studiosa dell’Università di Napoli e autrice di saggi importanti sulla seconda guerra mondiale, Gabriella Gribaudi è una dei pochi storici che hanno fissato come oggetto di indagine la memoria dei terremoti, delle alluvioni e di tutti quegli eventi traumatici che spezzano i vissuti delle persone tra un “prima” e un “dopo”. Alla trasmissione tra generazioni, ai ricordi e alle rimozioni è dedicata l’approfondita ricerca che ora Viella manda tempestivamente in stampa ( La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi del Novecento, Viella, pagg. 310, euro 29). Un saggio prezioso anche per riflettere su come elaborare il lutto della pandemia.
Professoressa Gribaudi, il Covid 19 presenta tutte le caratteristiche delle “catastrofi naturali” da lei studiate.
«Sì, per estensione territoriale va anche oltre i terremoti o le alluvioni che sono circoscritti a un territorio.
E inoltre mostra dei tratti inediti, dal momento che ci misuriamo non con rovine materiali, ma con un altro genere di macerie quali la grave crisi economica, l’isolamento delle persone, la sospensione delle relazioni sociali che domani recupereremo ma non sappiamo ancora in quale forma».
Nelle testimonianze di chi ha vissuto le catastrofi – e ora il coronavirus – ricorre l’analogia con la guerra.
«Tutti questi eventi rappresentano dei punti di svolta cruciali che spezzano ciascuna esistenza in un “prima” e in un “dopo”, segnando memorie e nostalgie. Nel caso dei bombardamenti e dei terremoti, c’è sempre un’istantanea che racchiude lo shock della perdita e dello smarrimento. Le testimonianze degli abitanti di Amburgo, distrutta dalle bombe nel 1943, non sono molto diverse da quelle degli abitanti di Laviano, paese dell’Irpinia raso al suolo nel 1980.
Nel caso del coronavirus non c’è l’attimo che annulla tutto, ma tutti ricordiamo il momento in cui abbiamo realizzato la gravità dell’epidemia, e lo spaesamento che ne è seguito. Niente è stato come prima».
Nella guerra però c’è un nemico riconoscibile. Qui è esterno all’umanità, e pure invisibile.
«La differenza più grande è legata all’intenzionalità con cui in guerra viene inflitta la violenza. L’offesa è insanabile, scrive Primo Levi, e si protrae nel tempo. Questo aspetto è invece molto sfumato nei bombardamenti perché vittime e carnefici non hanno un volto».
In una catastrofe viene meno l’intenzionalità del lutto.
«Sì, ma questo non impedisce che emergano le responsabilità di chi non ha costruito bene le case o di chi non ha attrezzato il paese per un’emergenza sanitaria. Non a caso è stato coniato il termine di “catastrofi innaturali”, proprio perché si tratta di fenomeni che nascono dall’ambiente ma vengono favoriti da negligenza. E questa responsabilità è destinata a segnare anche la memoria individuale».
Invece la memoria pubblica dei disastri “naturali” è come congelata, a differenza di quel che accade con le guerre.
«Si preferisce dimenticare. Il caso dei terremoti è esemplare. Gli italiani tendono a rimuoverli, pur sapendo che la penisola è costantemente esposta al rischio sismico. Non si vuole ricordare di convivere con il pericolo. E per le istituzioni è più facile intervenire nell’emergenza che lavorare silenziosamente contro quel rischio».
Oppure la memoria può essere divisa tra ricordo istituzionale e vissuto delle vittime.
«Questo sta già accadendo nella cronaca in diretta del coronavirus: da una parte l’ufficialità dei numeri, dall’altra l’esperienza delle famiglie che smentisce le cifre o comunque restituisce un quadro meno rassicurante rispetto al racconto pubblico».
Nelle comunità più colpite sarà difficile rimuovere il lutto vissuto in solitudine.
«Questa esperienza è molto simile a ciò che si vive in guerra. Un tratto ricorrente nelle testimonianze dei famigliari delle vittime è l’angoscia di non aver potuto dare degna sepoltura ai propri cari, o perché il corpo non si trovava o perché si era costretti a tumulazioni velocissime, talvolta dopo la ricerca delle bare smarrite. Questo è un dolore che si protrae negli anni».
Un’altra caratteristica specifica della catastrofe in atto è che stiamo perdendo una generazione e la sua memoria.
«Su questo occorrerà lavorare. E ci potrà servire il modello “dal basso” emerso dopo la seconda guerra mondiale: la memoria non solo degli eroi, ma di tutte le vittime senza distinzione, donne, bambini, vecchi, gente comune. È la formula adottata dai musei della memoria contemporanei, dallo Yad Vashem di Gerusalemme al Memorial del genocidio ruandese: i nomi scanditi uno per uno, le storie individuali sottratte al discorso massificato. È l’unico modo per far rivivere i vecchi in ciascuna comunità».
Sorprende molto che gli storici contemporanei non abbiano studiato i disastri naturali.
«Sì, è un errore in cui sono incorsi non solo gli storici italiani. I disastri “naturali” vengono considerati “incidenti” e in quanto tali posti al di fuori dell’azione umana: per questo ritenuti di competenza delle scienze dure. Basti pensare al silenzio sulla spagnola negli innumerevoli saggi dedicati alla Grande Guerra: l’epidemia ne fu uno degli effetti collaterali».
Come se fossero eventi fuori dalla storia. Eppure le catastrofi hanno prodotto mutamenti politici e sociali molto forti. Succede anche ora nei regimi illiberali: il caso ungherese è esemplare.
«Le catastrofi possono distruggere le fondamenta sociali di una comunità o provocare importanti mutamenti istituzionali. Il terremoto di Managua del 1972 liberò il Nicaragua dalla dittatura di Somoza e quello del Messico del 1985 portò alla crisi del sistema autoritario. Dal ciclone in Pakistan nel 1970 nacque il Bangladesh indipendente. Oggi sono più a rischio i regimi illiberali o le democrazie fragili, incapaci capaci di fronteggiare l’emergenza».
Il coronavirus fa saltare alcuni stereotipi legati alla narrazione dei disastri. Ad esempio, per restare entro i confini italiani, quello dell’efficienza nordica contro l’indolenza del Mezzogiorno.
«Dal Sud sono partiti molti medici e infermieri volontari, ma nell’immaginario resta il dualismo: quante volte abbiamo sentito dire “per fortuna il coronavirus è esploso al Nord…”? Ed è saltato anche il mito della supremazia occidentale».
Nel suo libro lei mette in guardia da alcune tentazioni in cui cadono gli storici dei “trauma studies”.
«Sì, una sorta di compiacimento. Il disastro spaventa e affascina: Susan Sontag ha scritto pagine fondamentali sul racconto del dolore. Ma gli studi mostrano che il voyeurismo prospera a distanza, quando l’oggetto di osservazione è lontano. Il coronavirus annulla ogni distanza».
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