Quel che resta dell’amore

La coppia e il sesso, la fine è ignota Così la distanza disorienta i sentimenti
di Natalia Aspesi
Ci sarà ancora amore quando la porta di casa si spalancherà e correremo fuori, in strada, gridando, ridendo, e ci verremo incontro con gli altri, gli sconosciuti, e ci abbracceremo come fratelli ritrovati? Oppure usciremo piano, in silenzio, ancora spaventati, diffidenti, uno alla volta, incapaci di superare le distanze dagli altri, tutti possibili ignoti nemici? Nel tempo della clausura domestica l’amore sta cambiando di senso, l’amore delle questioni di cuore viene inconsciamente rimandato al dopo, come se adesso potesse essere non una consolazione, una forza, una fonte di speranza, anche solo un passatempo, ma piuttosto un ingombro, una pretesa egoista, una inutile fatica se non addirittura un pericolo mortale.
L’amore che pretendiamo adesso è quello che ci possono dare gli altri, non responsabili di quel che sta succedendo ma chiamati ad esserlo: i medici, il personale sanitario, i ricercatori, il governo, il giornalismo civile, non certo quello colpevole che si nutre di sventure al servizio dell’opposizione velenosa. C’è anche l’amore di chi dà, i milioni chi li ha, il piatto fumante di minestra calato dai balconi al mendicante velocissimo che arriva e scappa in un baleno. Leggo che anche in Afghanistan dove la vita è durissima da decenni, non è scomparsa la pratica della condivisione e della generosità, e chiusi come noi nelle loro abitazioni, chi può aiuta chi non può. Blindati in due locali o in ville col parco stiamo scoprendo quanto poco sappiamo dell’amore, quanto ne abbiamo dimenticato, sostituendolo con l’egoismo familiare, la dispersione sessuale, l’antagonismo sociale e politico. Ora questo confinamento che ci definisce come un nucleo chiuso e separato dagli altri, una famiglia, una coppia, una persona sola, tante isole sperdute, secondo gli esperti dovrebbe dare il tempo della riflessione, migliorarci nei rapporti del dentro e del fuori: ma potrebbe essere l’opposto, non lo sappiamo, ogni giorno è un precipizio nuovo e per ora, settimana dopo settimana, senza via di fuga, non un luogo, se mai si potesse raggiungere, che non sia contaminato.
In tutti i continenti, nelle nazioni più popolate, nei luoghi più isolati, nei paesi ricchi e in quelli poveri, nei luoghi di guerra e in quelli in mano ai terroristi; nel Canada e in Burkina Faso, in Mongolia e in Arabia Saudita, in Nuova Zelanda e alle Maldive: persino nelle tribù Amazzoniche e nell’isola di Pasqua, dove non si sa come sia arrivato, e naturalmente in tutta Europa e soprattutto in Italia. Negli Stati Uniti, scrive il New York Times , gli esperti si aspettano 70 per cento di contagiati e hanno già cominciato a porsi il problema se bisognerà sul serio dimenticarsi di quelli molto anziani e già indeboliti da altre malattie; in Cina, a Wuhan, l’ordine adesso è di tornare a rinchiudersi in casa. I terrapiattisti possono sostenere che è la Terra stessa ad aver deciso di liberarsi di un inutile surplus umano per salvarsi, mentre noi, in Italia, ci accontentiamo di dar la colpa a tutti gli altri, governo e opposizione, regioni comuni, disinformazione o eccesso di notizie, una massa di chiacchieroni cui il coronavirus ha dato l’opportunità di infinocchiare nuovi sprovveduti. Nelle case, le nostre e quelle di tutto il mondo, viviamo le stesse giornate di affanno, reclusione, paura, con la nera prospettiva di un futuro impoverito ovunque per tutti, per i poveri, i meno poveri, per chi oggi povero non è.
La smania dell’uscire si sta calmando, la paura della fame nell’inattività non è più così smaniosa, la coppia è disorientata dalla convivenza senza scampo, o vive sempre più la distanza come protezione piuttosto che come mancanza, i ragazzini, e lo ha raccontato benissimo Concita De Gregorio, vivono con saggezza un presente inaspettato che li fa sentire, forse per la prima volta, responsabili. E’ come se le nostre mura stessero diventando la fortezza Bastiani che si erge sull’immenso vuoto del deserto dei Tartari, e anche noi, come il sottotenente Drogo, una volta tornati alla nostra normalità che non sarà più quella di prima, non saremo più capaci di sopportarla preferendo tornare a rinchiuderci in gabbia. Adesso ne siamo prigionieri, ma poi oseremo uscire, accettare l’incognita di una vita sconosciuta, che già ci viene prospettata come durissima, da affrontare con umiltà, sacrificio, rigore?
Questo sarebbe anche il tempo per cambiare noi, di un ritorno alla saggezza, al rispetto delle competenze, al bisogno di comunità, all’accettare che non ci sono confini che salvano, che tutto il mondo sta soffrendo e pagherà. Non basta neppure essere una sola Europa, bisogna essere, almeno idealmente, un solo mondo. Figuriamoci che risate. Sono giorni di attesa questi e stranamente passano in fretta, più in fretta del solito anche facendo smart work, o studiando on line, o tentando una delle tante ricette di carbonara che invadono misteriosamente i social, o la pazzia di fare una coperta all’uncinetto o il piacere autarchico di fare cose con Skipe.
Si può smaniare di passione negata, del resto come sempre, oppure accorgersi che del sesso se ne può fare a meno, è forse meno importante di quel che ci eravamo abituati a pretendere. L’amore oggi non è toccarsi, non è pelle e corpo, non è dare e chiedere piacere: perché ormai si sa benissimo che se ami e ti ami devi farne a meno, o comunque accontentarti. Un sollievo è che non è più tempo di molestie, perché i molestatori non hanno materiale e le molestabili sono al sicuro. Forse non ci penserà più nessuno, anche questo un ricatto del fuori e del prima. In Cina, in piena epidemia, erano raddoppiate le richieste di aiut o delle donne chiuse in casa con uomini pericolosi, in Italia per ora meno, almeno così sembra: i maschi violenti si sentono al sicuro, lei non può scappare. Oppure lui è talmente impaurito dal possibile contagio che non le mette le mani addosso e con i guanti è più difficile.
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