QUEI SEGNALI A SALVINI DAL NORD-EST.

 

Il punto
Achi s’interroga sulla durata del governo giallo-verde (pochi mesi, un anno, tutta la legislatura) non si può che rispondere così: durerà fin quando la convergenza d’interessi fra M5S e Lega sarà più forte del malumore che le difficoltà del giorno per giorno sono destinate a creare in questo o quel settore dell’elettorato. Un elettorato – va ricordato – che non è intercambiabile fra Carroccio e Cinque Stelle e ha esigenze diverse da Nord a Sud.
Finora Di Maio e Salvini hanno goduto di una rara congiunzione astrale: gli elettori di entrambi i partiti sono ancora in luna di miele con il loro governo “populista”, anzi sono cresciuti di numero grazie al fatto che le questioni più scabrose sono rimaste sullo sfondo mentre al centro della scena sono stati imposti temi mediatici e a basso costo, capaci di aggregare con successo una certa opinione pubblica: dai migranti da respingere ai vitalizi dei parlamentari da abolire. Tuttavia le polemiche sul “decreto dignità” sono il primo indizio che la realtà sta riprendendo il suo spazio.
Tra chi protesta nel Nord-Est contro i nuovi vincoli imposti dal decreto ci sono tanti elettori della Lega. Di Maio può forse ignorarli, Salvini ovviamente non è in condizione di fare lo stesso. O meglio: egli potrebbe decidere di sacrificare una porzione di elettorato sull’altare del compromesso e quindi della durata del governo; ma in questo caso c’è il rischio di intaccare la riserva strategica del consenso in una regione, il Veneto, in cui il rapporto tra la classe dirigente leghista (vedi Zaia) e il territorio è molto solido, in apparenza quasi inattaccabile. Ed è proprio quel “quasi” che oggi fa la differenza.
Il “decreto dignità” non piace a quella parte del mondo produttivo settentrionale che ha interessi e prospettive diversi rispetto ai ceti sociali ai quali si rivolgono i Cinque Stelle. È una considerazione ovvia, ma finora abbastanza sottovalutata. Adesso che il tema è sul tavolo, non è detto che basti un accordo in Parlamento sostenuto da qualche emendamento al decreto per risolvere il problema. A maggior ragione se il governo dovesse decidere di porre la fiducia, rompendo per la prima volta il tabù. Come si ricorderà, le critiche “populiste” agli esecutivi di centrosinistra erano volte a stigmatizzare proprio l’eccesso di voti di fiducia che chiudevano la bocca alle opposizioni e coprivano i dissensi nella maggioranza.
Ora sarebbe la prima volta che nel post 4 marzo si ricorre a questa procedura sbrigativa. Un singolo voto, eventualmente: ma è anche il primo provvedimento controverso che approda in aula.
Per Salvini la vicenda è in ogni caso un segnale d’allarme. Il rapporto con i Cinque Stelle produce molti vantaggi in termini di potere, ma sta già creando qualche crepa nelle relazioni con una società poco disposta a farsi inscatolare negli slogan. Se il malessere del Nord-Est va preso sul serio – e non c’è motivo di ignorarlo – , esso dimostra tra l’altro che la politica della Lega non può ridursi solo alla questione dei migranti. Per quanto la guerra alle Ong e tutto il resto abbiano portato molto consenso a Salvini, il suo elettorato si aspetta di più in altri campi: meno tasse, meno burocrazia. In fondo proprio il Veneto, governato dai leghisti, è un esempio di integrazione riuscita: un luogo dove l’emergenza – qualunque cosa significhi questo termine caro a una certa propaganda – viene percepita meno che altrove. E dove si chiede alla Lega di governo di “twittare” meno e agire di più. A costo di incrinare l’ambigua alleanza con i Cinque Stelle.
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