l caso Palamara
di Paolo Mieli
In principio fu, la sera dell’8 maggio 2019, un incontro malandrino all’Hotel Champagne di Roma. C’erano cinque magistrati che, assieme ai deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, discussero in modo probabilmente improprio di nomine ai vertici di importanti procure. Di lì in poi un curioso trojan — che intercettava con modalità intermittenti — mise agli atti una gran quantità di altrettanto impropri scambi d’opinione, tra Palamara e altri suoi amici togati.
Ne nacque una tempesta. Oltre un terzo dei consiglieri del Csm dovette lasciare l’incarico allorché furono riconosciute le loro voci captate dal trojan. Alcuni, non identificati, tremano tuttora. Ascoltate le registrazioni, il magistrato Nino Di Matteo disse che quel modo di trattare sottobanco l’affidamento di incarichi gli ricordava i «metodi mafiosi». Un suo collega, Giuseppe Cascini, osservò che mercanteggiamenti del genere gli facevano tornare alla mente «i tempi della P2». Sembrava fosse giunta l’ora del giudizio universale. Ma siamo pur sempre in Italia e, a poco a poco, abbiamo dovuto arrenderci alla costatazione che si è proceduto (e si procederà) alla maniera di sempre. E che a pagare il conto per quei tramestii sarà il solo Luca Palamara ex potentissimo capo dell’Associazione nazionale magistrati, ora abbandonato da tutti (quantomeno dagli ex colleghi).
Per quel che riguarda poi l’annunciata riforma di purificazione della magistratura che, dopo la scoperta di quel verminaio, sembrava improcrastinabile — pulizia che fu sollecitata in più occasioni persino dal Capo dello Stato — se ne sono perse le tracce.
Nel procedere contro Palamara gli ex colleghi del Csm per un bel po’ di tempo se la sono presa comoda. Più che comoda. Adesso invece, all’improvviso, mostrano di aver fretta e di voler giungere rapidissimamente alla sentenza che segnerà la conclusione del procedimento disciplinare contro di lui. Si tratterà quasi sicuramente di un verdetto di condanna che porterà, con identica probabilità, alla espulsione di Palamara all’ordine giudiziario. Allo stesso modo con cui lo stesso Palamara è stato cacciato dall’Associazione nazionale magistrati.
Palamara, per difendersi, avrebbe voluto poter provare che non era il solo a compiere quel genere di manovre. In effetti ancora oggi non è chiaro dove si collochino i confini tra l’operato suo e quello dei suoi colleghi (quantomeno una parte di loro). Possibile che Palamara decidesse da solo gli incarichi delle procure di mezza Italia? E che il suo modo di trattare con i vertici della politica fosse sconosciuto agli altri magistrati? Palamara ritiene di poter dimostrare che tutti (o quasi) sapevano e si comportavano come lui. Sarebbe stato interessante poter assistere a una pubblica discussione su questi temi, avendo a disposizione il tempo necessario ad ascoltare un consistente numero di testimoni qualificati. Qui però si è fortuitamente inserito il «caso Davigo». Che c’entra Davigo? L’ex pm di Mani pulite, dal 2018 consigliere del Csm, è entrato a far parte del collegio disciplinare che si occupa del caso in questione. Ma il 20 ottobre prossimo Davigo compirà settant’anni e, a norma di legge, quel giorno stesso dovrebbe essere collocato a riposo. Lasciando anche il Csm? Neanche per idea, è la sua risposta: il posto che si è conquistato al Csm ha una durata di quattro anni, perciò— pensione o non pensione— lui ha intenzione di restare in carica fino al 2022. La corrente di sinistra «Magistratura democratica» — per voce di un suo rappresentante, Nello Rossi — ha criticato la posizione di Davigo. Critiche a cui Davigo ha risposto con un’alzata di spalle: è vero – ha riconosciuto – che il magistrato deve essere «in funzione» nel momento in cui è eletto al Csm, ma – ha poi aggiunto – non è detto da nessuna parte che se, dopo qualche tempo, va in pensione, debba contestualmente rinunciare alla carica conquistata. Rossi e quelli di Md gli hanno fatto osservare che nel caso «da ex» commettesse scorrettezze, non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare. Ma nessuno ai vertici del Csm ha raccolto queste obiezioni.
Certo, è curioso che un caso del genere si affacci – per la prima volta nella storia della magistratura italiana – proprio adesso. Tra l’altro che potesse sorgere questa complicazione non era imprevedibile: il dottor Davigo nel momento in cui è entrato nell’organismo ristretto che si occupa di Palamara era evidentemente a conoscenza del fatto che il prossimo 20 ottobre avrebbe compiuto settant’anni talché, come tutti i suoi colleghi, sarebbe stato collocato a riposo. Considerati i pro e i contro di questo singolare intrico, avrebbe potuto cedere il passo a un collega con meno anni di lui e in questo modo il problema non si sarebbe neanche posto. Ma, evidentemente, Davigo ha preferito essere presente di persona a Palazzo dei Marescialli in questo delicato frangente della vita della magistratura italiana. Desidera poter assistere direttamente al confronto con Palamara. Ed essere tra coloro che valuteranno le decisioni da assumere contro di lui. Anche a costo di sfidare la «legge dell’età».
A questo punto però si pone un problema. Palamara, che tra l’altro aveva cercato (senza successo) di portare Davigo sul banco dei testimoni, potrebbe approfittare di questo garbuglio per provare a mandare gambe all’aria l’intero procedimento a suo carico sollevando, dopo il 20 ottobre, eccezioni sulla presenza tra i suoi «giudici» dell’ex pm di Mani pulite. Ed ecco che allora si è escogitata una soluzione. L’uomo della cena all’Hotel Champagne – dopo essere rimasto a bagnomaria per un anno e mezzo – verrà adesso giudicato in un lampo. Veloci, veloci, veloci. Si cercherà di giungere alla sua più che probabile decapitazione prima che sia scoccata l’ora del compleanno di Davigo. Non c’è spazio per i centotrenta testimoni di cui Palamara aveva chiesto la convocazione. Del resto gli erano già stati negati quasi tutti, diciamo pure tutti (almeno per quel che riguarda magistrati). Il processo interno al Csm deve essere rapidissimo. Gli altri magistrati pizzicati dal trojan , verranno «trattati» in tempi successivi quando ormai nessuno presterà più attenzione a questa torbida storia.
Spiace che le cose siano andate in questo modo. Ci sono procedimenti giudiziari in cui il dibattimento vale davvero molto e un’accurata, attenta escussione dei testi conta forse più della sentenza finale. E questo è uno di quei casi. Va detto infine che non è un bene venga emessa una dura sentenza anche contro il peggiore dei presunti malfattori, senza che gli sia stata data la possibilità di difendersi. In particolar modo quando l’imputato appare condannato in partenza. Va infine aggiunto che con questo genere di procedimento, fulmineo e senza testimoni, ci toccherà rinunciare a capire se c’erano – e, nel caso, chi erano – i colleghi di Palamara che, assieme a lui e a qualche parlamentare, decidevano irritualmente gli incarichi apicali della magistratura italiana. Peccato. Certo, contro Palamara ci saranno altri processi. A cominciare da quello di Perugia. Ma per i modi in cui viene giudicato dal Csm, è difficile immaginare che nel prossimo futuro le cose andranno in modo radicalmente diverso.