Il libro Società della merce, spettacolo e biopolitica neoliberale di Alessandro Simoncini (Mimesis, pp. 310, euro 25) cerca di dare una risposta attuale a una domanda antica: cosa permette e giustifica la servitù volontaria? Quali sono i meccanismi e i dispositivi con cui il desiderio viene oggi preformato e orientato verso l’obbedienza e il consumo, disinnescando ogni volontà di conflitto e di antagonismo? Per rispondere a questa domanda Simoncini mobilita saperi diversi (la filosofia politica, l’estetica del cinema, la psicoanalisi lacaniana) e autori decisivi per il pensiero critico del ’900 (tra gli altri Benjamin, Baudrillard, Pasolini). Una particolare rilevanza continua ad avere per lui il concetto di società dello spettacolo di Guy Debord, perché permette di individuare il momento germinale che porta alla costituzione di spettatori passivi, confinati in una attitudine contemplativa; e disposti alla visione di fatti ed eventi traumatici, ridotti a immagini spettacolari, di cui diviene molto difficile affermare verità o falsità.

APPARENTEMENTE questa passività sembrerebbe oggi superata dall’intensa iperattività permessa e anzi richiesta dalla rete. L’autore dedica alcune delle pagine più interessanti del libro a dimostrare come in realtà questo sia un «falso movimento», messo fin dall’inizio al servizio della formazione di una soggettività spettrale e disposta all’obbedienza. La rete porta a termine quella che Franco Fortini definì l’«amara vittoria del surrealismo», in cui tutte le conquiste linguistiche e l’immaginario delle avanguardie del Novecento vengono sviati verso la celebrazione e la fantasmagoria delle merci. Il nuovo «discorso del capitalista», come ebbe a definirlo Lacan, conduce all’ingiunzione continua di un «godimento dell’idiota», nell’incessante inseguimento di una serie di oggetti petit a, in cui ogni volta si incarna per un attimo il desiderio perverso della merce: «La coazione a godere non funziona solo come un imperativo ma anche come richiesta attiva di partecipazione… È dentro questo dispositivo che il capitale mette al lavoro il desiderio orientandolo feticisticamente sulla merce, la quale espunge il negativo e reitera una promessa di godimento destinata a essere essenzialmente delusa».
Si crea in questo modo un «inconscio sociale», la cui tonalità affettiva fondamentale oscilla in modo schizoide tra l’euforia feticista e la depressione malinconica, l’esaltazione dell’imprenditore di se stesso e il lutto del fallimento, il debito e la colpa. Questa forma di servitù volontaria non è dunque semplicemente passiva, ma richiede l’adesione attiva del soggetto, finché la lacerazione sempre più intensa che divide e distrugge la sua psiche gli permette di stare in piedi e di sopravvivere.

DI QUESTE ESISTENZE LARVALI prodotte dal capitalismo Pasolini ha descritto l’impietosa allegoria, soprattutto in Petrolio e nel Salò-Sade, a cui Simoncini dedica un’analisi attenta e non convenzionale: «Sono gli imitatori dei Modelli, i consumatori di ogni merce-merda, gli spettatori abbagliati dalle idiozie televisive, gli elettori democratici, i cittadini liberi e moderni», i non-morti che non possono definirsi vivi, i corpi e le menti divenuti nutrimento dell’astratto vampirismo del capitale. Di questo «pubblico» che non è un «popolo», Simoncini traccia una genealogia che parte dalle esposizioni universali del secondo Ottocento (partendo da alcune osservazioni di Benjamin) fino all’attuale sperdimento nella rete, sempre ponendo al centro la merce come «fenomeno originante» o come apriori storico che modula le varianti delle soggettività dominate dal capitale.
Queste analisi conducono poi alla parte finale del libro, quella più propriamente politica, dove vengono considerati alcuni aspetti del neoliberismo e della sua crisi attuale. Dopo aver riconsiderato il concetto di biopotere in Foucault e il suo intreccio col potere disciplinare, Simoncini analizza il ruolo dello Stato nel contesto neoliberista, che non è affatto secondario o di semplice supporto ma invece intensamente produttivo delle condizioni che permettono al mercato capitalista di funzionare pienamente e di sviluppare la sua natura competitiva. In tal modo si crea quel regime politico ibrido che da alcuni è stato chiamato di postdemocrazia, e che ha più d’un tratto in comune con lo spettacolare integrato di Debord.

NEL CORSO di questo processo avviene una apocalisse lenta della democrazia rappresentativa, che palesa sempre più la sua natura di simulacro (come affermava Baudrillard) o di finzione spettacolare (Debord) e, in ultima analisi, la sua «natura oligarchica»; mentre il neoliberismo non si limita a decretare il trionfo del mercato ma produce una generale «sussunzione vitale» che si aggiunge a quella «formale» e a quella «reale», già analizzate da Marx.
Il neoliberismo non è dunque solo un meccanismo economico, ma un «dispositivo simbolico di assoggettamento», che si fonda sul potente fantasma di un individuo attivo e indipendente, e in realtà disposto a una servitù volontaria sostanziale. Nel suo insieme, il libro si propone di smascherare questa contraddizione: questo dovrebbe essere il compito preliminare di ogni pensiero critico.