Quale futuro per la Libia, avamposto del contrabbando nel Mediterraneo

Il Paese attendeva di andare alle urne a dicembre. Dalla stabilità libica dipendono i destini dei traffici mediterranei e non solo dei migranti, sempre più merce di scambio politico

7 Gennaio 2022 | di Lorenzo Bagnoli

La Libia doveva andare a elezioni il 24 dicembre. Il processo elettorale cominciato a novembre 2020, avrebbe dovuto portare stabilità a un Paese lacerato da dieci anni di guerra civile. La lista di candidati era di 98 persone, tra i quali spiccavano diversi nomi.

C’era l’attuale primo ministro ad interim Abdul Hamid Dabaiba (nominato a marzo 2021) il quale aveva promesso di non partecipare alle consultazioni, ma sembra uno dei più credibili garanti di unità. Il redivivo Saif al-Islam Gheddafi, figlio di Muhammar, che a luglio sembrava essere molto popolare, raccontava il New York Times Magazine, nonostante la condanna dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità e gli anni di latitanza dopo la liberazione, a seguito di un’amnistia concessagli nel 2017. Il maresciallo Khalifa Haftar, il capo delle forze armate dell’Esercito nazionale libico, sostenuto all’estero soprattutto da Egitto e Russia, che dal 2014, dopo una crisi politica simile a quella odierna, ha diviso la Libia in due blocchi. Fathi Bashagha, da Misurata, che è stato ministro dell’Interno ai tempi di Fayez al-Serraj e corre con il sostegno dei Fratelli Musulmani, che in Libia sono stati il partito a ispirazione islamica più forte emerso dopo la caduta di Gheddafi. Anche gli altri candidati sono per la stragrande maggioranza persone che già ricoprono ruoli di potere, che sia in Tripolitania (la Libia occidentale) o in Cirenaica (la Libia orientale). Segnale del pericolo reale che, alla fine, i protagonisti siano sempre gli stessi anche nella nuova Libia.

Non c’era però alcuna possibilità che la roadmap per le elezioni della vigilia di Natale (anniversario dell’indipendenza dall’Italia, nel 1951) potesse funzionare. C’era un clima di sfiducia già a novembre 2021, nel corso dell’ultimo incontro internazionale tenutosi a Parigi tra diverse fazioni concorrenti in Libia e alcuni dei principali capi di Stato europei. Alla fine, sulla carta, sono stati dei motivi burocratici che hanno spinto l’Alta Corte delle elezioni ad annullare le votazioni, riaggiornandole – con altrettanta sfiducia – al prossimo 24 gennaio. Nella pratica è stata la minaccia delle milizie a far propendere per il posticipo.

A dicembre 2021 l’Onu aveva inviato Stephanie Williams, diplomatica statunitense, a cercare di raddrizzare il percorso del voto. Quando sul Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi il 21 dicembre le chiede se il rinvio del voto è un fallimento risponde così: «Un dato mi è chiaro: i libici non parlano più il linguaggio della guerra per risolvere le loro differenze interne. E questa mi sembra un’ottima premessa sulla via delle prossime elezioni». Vedremo se questo ottimismo durerà.

La geopolitica del contrabbando

Al di là degli ovvi interessi delle potenze straniere, in questi dieci anni l’instabilità della Libia è stata un fattore anche nella geopolitica del contrabbando. È il traffico di gasolio, infatti, il principale business economico di gruppi criminali come la Brigata al-Nasr di Zawiya, da sempre alleata con il governo di Tripoli.

Il gasolio a prezzo calmierato che circola nel Paese è diventato un bene da vendere illegalmente al mercato estero, che siano i Paesi confinanti quali Tunisia ed Egitto, o il resto dell’Europa, attraverso Malta e Italia. Negli anni dopo la caduta di Gheddafi, lungo le rotte di gasolio e migranti, è sempre più facile intercettare anche carichi di armi e di droga destinata alla Libia per uso interno, oppure come punto di stoccaggio. E non è solo nell’ovest del Paese, ma anche a Tobruk, la città più vicina al confine orientale con l’Egitto. Abbiamo raccontato le rotte del contrabbando sia su IrpiMedia, sia su Avvenire, nella serie Libyagate firmata insieme al collega Nello Scavo. Abbiamo raccontato degli interessi di cosa nostra e racconteremo ancora delle conseguenze di queste inchieste e di profili di imprenditori del mare come Paul Attard.

Questi personaggi che si muovono a cavallo tra Nord Africa ed Europa hanno avuto un ruolo nel rendere la Libia, dopo il 2011, sempre più centrale nello scacchiere del contrabbando del Mediterraneo. Il fattore che ha giocato a loro vantaggio è stata la guerra civile continua e la conseguente instabilità.

Dato che quasi ogni milizia libica ha un suo sponsor politico, l’andamento elettorale condizionerà anche le future alleanze criminali. Saranno sempre gli stessi gruppi a sfruttare le infrastrutture del contrabbando costruite tra Libia, Malta e Italia? Oppure saranno dei nuovi attori? La Libia riuscirà a trasformare le milizie in forze dell’ordine nazionali? Oppure resteranno sempre gruppi criminali con dei loro alleati nel sottomondo grigio-nero di contrabbandieri e organizzazioni mafiose d’Europa?

La questione Guardia costiera e i morti nel Mediterraneo

Al di là delle milizie e del loro futuro, c’è un’emergenza umanitaria che sarà dura da interrompere nel Mediterraneo. Oltre 1.800 migranti sono annegati tentando la traversata nel 2021, secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), a fronte di 67.480 sbarchi in Italia (contro i 34.134 del 2020 e i 11.471 del 2019). Dal 2014, il dato supera i 23.100 dispersi.

Le milizie che indossano i galloni dei guardacoste – tra cui la milizia al-Nasr – fanno un lavoro che è molto importante per i governi europei che hanno come priorità fermare gli sbarchi a ogni costo. Erroneamente considerata come un corpo monolitico, la Guardia costiera libica – finanziata e addestrata con fondi dell’Unione europea e italiani – è in realtà composta da forze differenti che finiscono per essere chiamate tutte con lo stesso modo.

Alcuni “capitoli” della Guardia costiera libica, spesso legate a milizie, si comportano come trafficanti di esseri umani, come dimostrano, tra le altre cose, le testimonianze di pestaggi a bordo; altri però svolgono soprattutto il ruolo di soccorritori in mare, soprattutto quando sono legati alla Marina militare libica, più che a delle milizie. E i numeri dicono che sono 31 mila, tra gennaio e dicembre, le persone recuperate – o «intercettate» come scrivono le Nazioni unite – dalla Guardia costiera libica: per quanto protagonista di episodi di tremende violenze contro i migranti, la Guardia costiera libica nel suo insieme è una presenza nel Mediterrano e con le sue imbarcazioni contribuisce a evitare diversi naufragi. Questo non toglie, come racconta Ian Urbina su IrpiMedia che esistano casi – di cui uno è stato pienamente documentato da The Outlaw Ocean Project – in cui le milizie che gestiscono i centri di detenzione abbiano torturato un migrante fino a ucciderlo all’interno di una di queste strutture. E chissà quanti sono i casi simili sottaciuti.

L’elemento strutturale più controverso in merito alla collaborazione Europa-Libia riguarda il fatto che una volta recuperati da un naufragio, i migranti vengono riportati in centri di detenzione dai quali cercheranno nuovamente di fuggire.

Questa attività di salvataggio per procura, secondo diversi legali specializzati nella tutela dei diritti umani, rappresenta una forma di respingimento. Tanto è vero che la Cassazione, a dicembre 2021, ha stabilito che, almeno per il diritto italiano, i naufraghi che si ribellano al tentativo di essere riportati in Libia stanno esercitando «legittima difesa».

Se sul piano del principio la decisione è assolutamente condivisibile, all’atto pratico rischia di diventare un’ulteriore disincentivo per tutte le navi commerciali che battono bandiera italiana a partecipare ad azioni di salvataggio. Ai comandanti infatti può toccare in sorte di dover rispondere al coordinamento del centro di salvataggio di Tripoli che può ordinare loro di portare i migranti in Libia. È una condizione assurda a cui i marittimi non dovrebbero essere sottoposti: da un lato rischiano di commettere un respingimento o di dover sedare una sommossa a bordo; dall’altro, però, se non eseguono l’ordine, rischiano di essere ingaggiati da qualche unità navale della Guardia costiera libica. E il paradosso è che assetti navali e addestramento dei guardacoste sono stati finanziati da Italia e Unione europea e resta il sospetto che – come già documentato anni fa – il centro di coordinamento di Tripoli continui a dipendere da Roma.

Finora l’unico momento in cui sono stati garantiti dei salvataggi senza il rischio di respingimenti è stato quando l’Italia ha unilateralmente deciso – tra ottobre 2013 e ottobre 2014 – di svolgere l’operazione umanitaria Mare Nostrum. Nessuno però ha più messo sul piatto un’opzione del genere: troppo costosa sia sul piano economico, sia (soprattutto) su quello del consenso.

In ogni caso, quello che succederà con le elezioni – se e quando ci saranno – cambierà gli equilibri che conosciamo. Anche quelli criminali, la cui immagine che ci è restituita dalle indagini della magistratura italiana – l’unica che ha provato dall’Europa a fare luce sulle attività transnazionali delle milizie – sta cominciando a ingiallirsi con l’andare del tempo.

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