A 100 anni dalla nascita del Pci un saggio ne ricostruisce la storia. Tra grandi visioni e non poche contraddizioni
di Stefano Folli
Perché il Pci — di cui fra pochi mesi ricorre il centenario della fondazione — prese forma in Italia fino a diventare il maggiore partito comunista dell’Occidente, anziché inaridirsi come uno qualsiasi dei piccoli partiti fedeli al modello sovietico disseminati nel mondo? Come nacque e perché morì, alla fine degli anni Ottanta, inaugurando una lunga stagione di tormenti di cui la sinistra è ancora prigioniera? Il tema non è nuovo, ma Mario Pendinelli e Marcello Sorgi, cronisti di grande valore ed esperienza, lo risolvono in modo brillante nel loro saggio Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia , edito da Marsilio, che non vuole essere, ovviamente, una puntigliosa ricostruzione storica, bensì un tentativo riuscito di rispondere a domande che tutti si sono posti. I più vecchi perché hanno vissuto almeno la coda della lunga vicenda del comunismo italiano, i più giovani perché non tutti si rassegnano alla cancellazione di ogni memoria e all’azzeramento del passato tipici della sub-cultura “grillina” che si sforza oggi d’imporre la propria egemonia nella società, in una sorta di paradossale imitazione della nota lezione gramsciana.
Scriveva Eugenio Garin, citato da Pendinelli e Sorgi: «Gramsci non credeva che il consenso dovesse essere la conseguenza della conquista del potere: nella sua visione doveva avvenire esattamente il contrario». È uno dei punti centrali per approfondire la specificità del Pci, nata dalle circostanze storiche, ma soprattutto dagli uomini e dal loro modo di stare nella società tra gli anni Venti e Trenta. L’aspetto più interessante del volume è proprio questo viaggio negli uomini e nelle donne che ebbero un ruolo nella storia del partito, talvolta senza essere comunisti ma unicamente interessati a non disperdere un patrimonio di intelligenza e di capacità analitica. È il caso dei Quaderni gramsciani, messi in salvo dalla cognata Tania grazie a Raffaele Mattioli, banchiere umanista di impronta liberal-democratica che sarà al centro della storia nazionale nel dopoguerra, ma che già in epoca fascista proteggerà alcune figure destinate a un avvenire, come Ugo La Malfa e Giovanni Malagodi. Mattioli avrà un ruolo determinante in quegli anni, grazie anche all’amicizia con Piero Sraffa, prestigioso economista nella cerchia di Keynes.
Qui è la contraddizione del Pci. Da un lato le radici nella cultura e nella storia d’Italia — il peso, ad esempio, che ebbe Benedetto Croce su Gramsci — , dall’altro la subordinazione a Mosca e a un potere via via ossificato, il giudizio sull’Ungheria, le ambiguità della “via italiana”, per arrivare alle incomprensioni con le socialdemocrazie e alla diffidenza verso l’economia di mercato. Almeno fino a Enrico Berlinguer queste contraddizioni convivono creando il caso di un Pci calato a pieno titolo nella vicenda nazionale, ma al tempo stesso frenato dal “fattore K” ben descritto da Alberto Ronchey. Proprio a Berlinguer e alla sua drammatica parabola, Pendinelli e Sorgi dedicano numerose pagine, cogliendo il punto. «Il fallimento del compromesso storico — scrivono — ha consumato anche le reali possibilità di un’alternativa. Dopo la rottura con Mosca il leader è angosciato dalla necessità di trovare una strada che gli consenta di approfondire il fossato che ormai lo divide dal mondo sovietico, individuando tuttavia una linea che superi anche il modello capitalistico ».
Il declino del Pci nasce dalla “crisi strategica del partito”, come osserva Claudio Petruccioli, e sullo sfondo s’intravede Gorbaciov, il suo voler attuare le riforme in Urss restando nel quadro monopartitico (Silvio Pons), fino a rassegnarsi nel tempo al carattere non emendabile del sistema sovietico. A lla svolta di Occhetto, con la sua carica insieme temeraria e precipitosa, gli autori dedicano pagine di notevole interesse, arricchite da testimonianze dirette. Come pure al dopo: alla “nebbiosa terza via” che sembrò per un momento l’uovo di Colombo escogitato da Clinton e Blair per dare un nuovo orizzonte ai progressisti d’Occidente. Dilaga l’idea «che il nuovo capitalismo finanziario diventerà, insieme ai prodigi dell’economia digitale, l’alleato naturale dei partiti democratici di sinistra nella loro missione di modernizzazione». Ma l’esito non è quello sperato. I post-comunisti ora sono al governo con Prodi, Veltroni, D’Alema e Amato. Senza pesare le conseguenze, e senza essere certo i principali responsabili, si trovano ad aprire un varco al populismo, quello che nasce con la seconda Repubblica di Berlusconi ed esploderà anni dopo con i Cinque Stelle. Cesare Salvi, giurista e ministro del Lavoro, si oppose in nome del vecchio stile alle continue riforme delle pensioni e dei contratti di lavoro: «Obiettai da sinistra — ricorda — che la nostra gente non ci avrebbe capito». Non fu ascoltato.
In conclusione il volume riproduce la celebre intervista del 1981 di Mario Pendinelli a Umberto Terracini, tra i fondatori del Pci e presidente dell’Assemblea Costituente, ma soprattutto spirito libero, spesso dissidente. Senza la sua voce non si capirebbe abbastanza della storia del comunismo italiano, delle sue tragedie ma anche della sua centralità politica e culturale negli eventi del secondo dopoguerra. Il socialismo, sosteneva Terracini, non può prescindere dal riconoscimento pieno dei diritti. «Nei paesi dove erano state poste le premesse politiche per il socialismo, ma non quelle economiche e sociali, la prova è fallita». Ciò impone «autocritiche e sacrifici» a tutti, ai vecchi e ai giovani. È un richiamo valido oggi più che mai, mentre la politica sembra un campo di macerie.