Parlare di «arte femminile» potrebbe essere discutibile I lavori di tre artiste (diverse tra loro) qui lo confermano

Mona, Shirin e Ana

Tre donne, tre codici

 

di Francesca Bonazzoli

Mona Hatoum realizza installazioni e sculture con oggetti quotidiani di cui stravolge l’uso in maniera surreale; Ana Mendieta ha unito body art e land art per mezzo del proprio vissuto traumatico; Shirin Neshat è passata dalla fotografia al cinema per entrare nei silenzi dell’universo femminile. Tre donne; tre artiste attiviste. Ma ognuna molto diversa dall’altra. Sembra superfluo doverlo dire, eppure quando si parla di artiste si cerca sempre un denominatore comune, un «femminino nell’arte». Spesso si sottolinea la spiccata disponibilità al coinvolgimento personale, guardando per esempio a quello che è successo dalla fine degli anni Sessanta quando la body art offrì un’occasione all’autolesionismo di alcune intrepide come Marina Abramovic, Gina Pane o Valie Export che vi si buttarono come in una straordinaria occasione per esprimersi anche senza mezzi economici e senza gallerie alle spalle.

Altre volte si enfatizza l’uso di fili, filati, aghi e tessuti con cui molte si sono espresse nel passato, a cominciare dalle più grandi come Louise Bourgeois, Magdalena Abakanowicz o Maria Lai. Tutte osservazioni vere, ma dovremmo smettere di parlare di «arte al femminile» così come non ci viene mai in mente di parlare di «arte al maschile» e di darne definizioni comuni. Ogni artista ha cercato i suoi temi e le sue forme espressive, esattamente come gli uomini. La prova è evidente anche in questa collettiva confrontando i lavori di tre gigantesse: Mona Hatoum, Ana Mendieta e Shirin Neshat.

Hatoum, palestinese nata a Beirut, in Libano, nel 1952 e rimasta a Londra allo scoppio della guerra civile del 1975, ha cominciato con video e performance in prima persona concentrandosi su temi di denuncia sociale e politica, con focus su gender e razza. Poi, dalla fine degli anni Ottanta, ha virato verso l’installazione e la scultura realizzata con oggetti di recupero e di uso quotidiano, come le grattugie, ingigantite e trasformate in paraventi d’acciaio ruvido e freddo. Oppure i rosari di enormi dimensioni, a suggerire come la fede possa mutare in una presenza minacciosa e ingombrante per la convivenza; le granate di vetro di Murano o le keffiah tessute con capelli umani; le tavolette di sapone all’olio di oliva che, modificandosi con il calore, alludono alla lenta erosione dei territori palestinesi occupati. O ancora mappe del mondo disegnate sul pavimento con biglie di vetro non incollate, fragili e fluttuanti come i confini dei nostri Stati. Oggetti di dis-comfort domestico ispirati da quelli che si trovano in ogni appartamento, spesso rimaneggiati con un tragico humor surrealista per dire che i conflitti mondiali sono quelli «della porta accanto» dove il vicino di casa è il vicino politico.

Se Hatoum ha uno sguardo soprattutto politico, l’ossessione di Shirin Neshat, iraniana classe 1959, ma trasferitasi a New York dal 1975, sono le donne. Il loro destino di recluse dietro le formule religiose, il velo, le mura di casa o di un bordello. Partita con la fotografia (anche lei di sé stessa) la Neshat è arrivata al cinema (premiata anche al Festival di Venezia) dove si è cimentata attraverso storie dal respiro epico e universale in cui le donne, tutte le donne, anche quelle occidentali, sono personaggi da tragedia arcaica come Antigone e Elettra, e l’universo femminile si contrappone inesorabilmente a quello maschile. Infine Ana Mendieta, nata a l’Havana nel 1948 e morta a New York nel 1985, all’età di 36 anni, a causa di una caduta dalla finestra dell’appartamento al 34esimo piano al Greenwich Village dopo una lite con il marito assolto per insufficienza di prove, ha tenuto insieme con un’inedita formula land art, body art e performance art. Usando il sangue, l’acqua, la terra, ha messo in scena azioni di grande intensità spirituale ed emotiva, quasi riti magici, debitrici della mistica afro-cubana della Santería.

Le «Siluetas» create imprimendo l’impronta del proprio corpo nella sabbia, nella terra, nell’acqua o nel fuoco, interrogano le relazioni umane con la violenza, la vita, la morte. Mendieta si definiva earth-body artist e con la sua ricerca intendeva diventare tutt’uno con la Terra, la Natura e la forza femminile, uterina, del mondo. «La mia arte è il modo con cui ristabilisco i legami che mi uniscono all’universo. È un ritorno alla sorgente materna».

 

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