Provincializzare le scienze sociali

Nella crisi generale è difficile mettere a fuoco il presente e capire il ruolo di chi vuole trasformare la realtà. Una «sociologia di posizione» serve per guardare i modi in cui le problematiche globali si manifestano in chiave locale

Quella che racconterò è, almeno in superficie, una storia locale; quella di Messina, la città in cui vivo e che studio sistematicamente da oltre un decennio. Si tratta dunque di una narrazione incentrata sulla mia esperienza di un tessuto sociale. È evidentemente una storia dal forte carattere «descrittivo», ma con velleità a proprio modo anche «prescrittive». Si tratta, cioè, di una vicenda che ha per oggetto la militanza intellettuale e le sue funzioni in relazione a un territorio e ai suoi rapporti sociali. E che si pone il problema di come interpretare un ruolo dentro un contesto dotato di proprie specificità e di gradi di autonomia.

Ai fini di una rapida descrizione del contesto, bisogna osservare che è quello di un regime «populista urbano», in cui a prevalere è il governo tramite l’infimo (ovvero la delazione, l’individuazione di nemici interni, la riproposizione in chiave locale della lotta del bene contro il male). È una vicenda, inoltre, che si sviluppa attraverso la declinazione in chiave locale di temi evidentemente globali, che vanno però incontro a processi di adattamento per mano di politici e «traduttori» in grado di connettersi con i sentimenti e le storie dei luoghi, aggiungendovi significati e sfumature ulteriori rispetto a quelli generalmente noti.

Tale contesto appare in sintesi caratterizzato da una tendenza alla deprivazione. I dati disponibili mostrano infatti che il 33% dei contribuenti dichiara redditi compresi tra 0 e 10.000 euro annui lordi (ossia tra 0 e 800 euro mensili lordi), mentre il 40% della popolazione ha introiti compresi tra 15.000 e 26.000 euro annui (e quindi tra 1.200 e 2.200 euro mensili lordi). Inoltre il 51% della popolazione ha frequentato soltanto la scuola dell’obbligo e anche meno; la popolazione è decresciuta di circa 50.000 persone in meno di cinquant’anni e nell’ultimo decennio o poco più si perdono mediamente 1.500 persone l’anno. L’emigrazione inizia dunque molto presto – spesso già negli anni dell’università – e con le persone se ne vanno anche gli investimenti.

È comprensibile pertanto che Messina  sia, oltre che una città deprivata, anche «rancorosa. Ovvero abitata da un numero molto ampio di persone che percepisce – spesso solo con moderate ragioni – di vivere in condizioni così disagiate e arretrate da poter intendere la politica solo come governo minimo del quotidiano (la raccolta della spazzatura, la cura verde urbano, l’illuminazione pubblica, i sussidi ecc.) e come «teodicea urlata» (secondo il modello del populismo à la Beppe Grillo, che resta vivo vegeto in questi territori. Un linguaggio fatto di «pisciatoio», «cesso», «cazzo», «pisciare in testa» rivolto ad avversari e comuni cittadini dal locale sindaco, campione di questo stile politico incentrato sulla deresponsabilizzazione). Quella dello Stretto, inoltre, è una città che per due volte di fila si è consegnata a forme di potere «carismatico» e «messianico», in un crescendo mediatico-populista che ha, qui come altrove, legittimato l’infimo (come testimonia la lingua livorosa e scientificamente volgare del leader locale).

Si tratta dunque di un contesto locale in cui, con forme esasperate, si intrecciano motivi nazionali e locali incentrati sui temi del depauperamento, della salvezza (ovvero di comprensioni della politica come salvezza per mano di un soggetto illuminato), i sentimenti autoritari, la ricerca della disintermediazione comunicativa e la relativa illusione di contare attraverso la parola mediata dai social network e, infine, il clientelismo (ossia la speranza di una salvezza individuale).

Oltre il post-moderno

Se si tratta di una crisi generale, il mondo militante può sfuggire a questo clima di «decadenza realizzata» in una città? Dal mio angolo di osservazione, le categorie analitiche degli attivisti appaiono spesso velleitarie, autoreferenziali, limitate negli interessi e slegate dai modi sociali di comprensione del reale. Sono categorie alte nelle vocazioni, ma testimoniali e dunque inadeguate, in quanto pensate per un altrove dai tratti sociali estremamente differenti (quelli della metropoli settentrionale, oppure del conflitto operaio nella logistica). In estrema sintesi si potrebbe dire che in fondo la crisi del proletariato e della piccola borghesia è la medesima crisi della società borghese e della società civile e militante: la difficoltà a mettere a fuoco il presente e comprendere il proprio ruolo. È, in altri termini, una «crisi della presenza».

La domanda che pongo – a rischio di essere tacciato di andare a braccetto con immaginari reazionari ed elitisti – è se dentro questo quadro sia ancora possibile per un soggetto dalla «doppia appartenenza» come lo è un sociologo, sospeso tra categorie disciplinari e pratica politica, feticizzare tanto il «popolo» (il «basso», la «gente») quanto la «sinistra» (in particolare quella radicale, dei movimenti ecc.). In altri termini viene da chiedersi se davvero, alla luce dei rapporti sociali reali e dello strumentalismo nella risposta agli interventi politici, si possa avere ancora fiducia in quel soggetto idealizzato (corrispondente alla «gente», ossia il sottoproletariato, il mondo operaio e la borghesia minuta che fatica a sopravvivere) che molti a sinistra, e con un discreto lavorio interiore, ritengono depositario di una comprensione del reale di ordine superiore a quello delle élite. Allo stesso modo mi chiedo se la sinistra dei movimenti – che ha spiccati tratti di specialismo e, come si è detto, presenta spesso una parziale comprensione del reale – possa essere un soggetto idoneo a decifrare e rappresentare con finalità riformistico-rivoluzionarie quella crisi del presente di cui è parte.

Non si tratta di concedere qualcosa all’anti-plebeismo che serpeggia da sempre nel sentimento politico borghese italiano e meridionale, da Lombroso e Niceforo giù sino al Partito democratico; ma di riconoscere che pedagogie politiche, condizioni strutturali e politiche pubbliche di lunghissima durata sono riuscite nei loro intenti e hanno prodotto delle «antropologie» prevalenti e trasversali, così come delle forme di inadeguatezza cognitiva. Se si può soprassedere sull’espressione che impiego, l’impressione è che quei mondi sociali che si vogliono strappare ai pericoli siano in effetti avversari di chi intenda salvarli nei termini di una ideologia e non in quelli propri della società. Ma che siano anche in qualche modo speculari.

In questo senso la comprensione degli aspetti di superficie di una «lingua» è politicamente e sociologicamente fondamentale. Ma lo è ugualmente quella della comprensione delle sfumature intime racchiuse dai segni e dalle parole. Il riconoscimento del fatto, cioè, che i significati profondi di quella lingua popolare implicano una visione del mondo per larghissima parte incompatibile con un progetto radicalmente riformista, se non rivoluzionario. Non basta dunque impossessarsi degli aspetti formali di un codice linguistico, se non si è in grado di intervenire sui significati e le relazioni simboliche intime che questo implica (ciò che costituisce il vero problema). Per esempio, l’informalizzazione del linguaggio e dei ruoli politici non sono pratiche di cui ci si possa impossessare senza riflettere anche su cosa nascondano e comportino dal punto di vista dell’ideologia complessiva.

In un senso del tutto anti-genealogico e carico di inappropriatezze, direi che a sinistra si apre la necessità di andare oltre sia il «post-moderno» (inteso qui frettolosamente come la vocazione al superamento delle differenze tra l’«alto» e il «basso», l’informalizzazione dei modi di espletazione dei ruoli pubblici e l’indifferenza per le gerarchie dei saperi) sia la poetica del popolare come forza avanzata, che disporrebbe delle risposte adatte a comprendere il reale. Di riflesso vi è anche la necessità di andare oltre la poetica dei movimenti sociali come «interpreti» dei bisogni popolari. Il popolo, il proletariato, i lavoratori ecc. sono infatti un «composto» di posizioni lavorative, economiche e culturali spesso in competizione tra di loro (si pensi, per esempio, alle differenze tra venditori ambulanti e bottegai nel contesto urbano meridionale; certamente in quello messinese). Di contro i movimenti sono ugualmente specializzati in mille rivoli disgiunti (la questione abitativa, l’immigrazione, i generi, certi lavori ecc.), oltre che limitati nella penetrazione sociale. Al limite impegnati in temi di scarso o nullo interesse per le componenti sociali più deboli, scarsamente istruite, anziane ecc. Inoltre nel quadro attuale questo stesso soggetto collettivo, il «popolo», tende per larga parte verso l’infimo (come dimostra il gusto per la violenza verbale dell’ex sindaco, che stenta a essere riconosciuta come tale dalla sua base, la quale ne disconosce anche gli effetti reali) e appare profondamente avverso ai valori propugnati dai movimenti.

Per una sociologia di posizione

Una domanda che deriva da ciò e che cosa sia la «posizione» dentro questo quadro? Qual è il ruolo del sociologo/antropologo/scienziato sociale engagé, non-amministrativo, non-carrierista in senso universitario o politico, e non-istituzionale? In altri termini, per chi dovrebbe parteggiare e quale posizione condivisa con altri soggetti dovrebbe esprimere?

La mia risposta – vagamente esistenzialista – è che questa posizione da esprimere non possa essere più facilmente che quella «propria», intesa come prospettiva appassionata ma allo stesso tempo fredda, capace di tenere conto della complessità delle esperienze, degli interessi e dei bisogni. Il lavoro che il sociologo è chiamato a svolgere in certe aree del paese è semplicemente quello di collaborare alla rifondazione della società politica, lavorando sotto traccia e fungendo da agente di collegamento tra le forze del territorio. Il sociologo «di posizione» è così colui che sfugge alle generalizzazioni teoriche e si sforza di trovare le categorie adeguate a svelare gli intrecci, ossia le unità minime della complessità sociale presenti negli spazi in cui opera. È inoltre il soggetto che critica il potere così come i movimenti; che provoca il dibattito sui quotidiani locali; che sfugge ai narcisismi e alla possibilità di costruirsi, oppure essere costruito, come personaggio; che si chiama, almeno quando è possibile, fuori dalle divisioni e dagli specialismi politici (è chiaro infatti che rimangono partiti e confini politico-sociali invalicabili). Si può ancora immaginare questo tipo di «scienziato» come colui che, attraverso una lingua naturale, traduce il territorio a beneficio di chi lo abita senza comprenderlo, come per esempio una parte significativa della classe politica progressista.

Un aneddoto minuscolo può servire a illustrare questo punto. Messina è ricca di baracche e alcune aree sono attualmente oggetto di risanamento. Poiché in passato ho dedicato più libri a queste aree, un mio contatto locale mi ha informato che nel corso della corrente campagna elettorale amministrativa una certa forza politica andava in queste zone promettendo una casa non soltanto ai baraccati, ma anche ai proprietari delle circostanti abitazioni regolari, che, per quanto vecchie, non avrebbero dato agli abitanti il diritto di essere ricollocati altrove. Questi proprietari, per lo più anziani, temono comprensibilmente di essere «soffocati» dalle palazzine che verranno costruite in luogo delle baracche. Ho dunque banalmente raccomandato su una chat del centro-sinistra allargato di tenere presente quanto avevo udito e di integrarlo tra i temi che sarebbero stati discussi negli incontri con i residenti delle medesime aree. La risposta di un eminente figura dello schieramento è stata che bisognava denunciare immediatamente la cosa ai quotidiani e, dunque, all’autorità giudiziaria. Quel che evidentemente gli sfuggiva era che il mio racconto non aveva funzioni di polizia, ma «antropologici»: era un’informazione, cioè, che aveva per oggetto paure e convenienze sulle quali bisognava intervenire per costruire un contro-discorso e dissuadere la popolazione dal seguire certe lusinghe.

Probabilmente questa ricezione da parte politica era l’effetto di un’estraneità della persona rispondente da pratiche politiche incentrate sulla frequentazione del territorio e l’uscita dai confini spaziali della classe di provenienza. Ma era anche il segno di una visione della politica come insieme di atti che hanno valenza puramente amministrativa e giudiziaria, che non postula l’egemonia e la comprensione della società nei termini delle popolazioni.

Estendendo il ragionamento, l’aneddoto suggerisce anche che entro cornici di questo tipo le scienze sociali dovrebbero «provincializzarsi», ovvero guardare ai modi in cui le problematiche globali o più generali si manifestano o vengono declinate, intese, fraintese e strumentalizzate in chiave locale. Talvolta persino «iper-locale», ossia entro le aree disperse di una medesima città. Queste pratiche insieme analitiche e d’azione politica dovrebbero cioè osservare la pluralità delle componenti sociali e degli interessi in gioco (inclusi quelli più reazionari e apparentemente insignificanti). Tali discipline dovrebbero vedere come queste forze agiscono nei territori dispersi e quali rapporti intrattengono con le teorizzazioni generali. In questo quadro, una scienza sociale di «posizione» è una pratica di conoscenza e intervento che è consapevole delle tendenze e delle idee dominanti, ma che pone al centro della propria azione cognitiva e militante le caratteristiche sociali del territorio. Dovrebbe essere un apparato per l’estrazione di conoscenze e significati che sono propri delle località, e una pratica cognitiva che mira a verificare costantemente le possibilità di applicazione dei concetti generali alle dimensioni locali e l’apporto delle dimensioni locali a quella generale. Tutto ciò nella consapevolezza del fatto che se l’uguaglianza delle condizioni è l’obiettivo ideale, il mondo in cui si opera è frazionato (a volte anche in modo felicemente tale) e che i fronti di conflitto politico e ideale sono infiniti.

Concludo con un’osservazione prescrittiva e forse moraleggiante: per chi la pratica questa «scienza» dovrebbe essere una disciplina «interiore», che è sì al servizio di un’idea del mondo, ma che respinge le tentazioni agiografiche nella descrizione degli ambienti (quartieri, movimenti politici, popolazioni ecc.) e che pone davanti a tutto il problema del reale, del realismo, dei rapporti di forza e, classicamente, della relazione tra mezzi e fini. Ossia che si pone il problema di come mettere in connessione ciò che si ritrae come isolato, distinguendo tra ciò che oggettivamente lo è e quello che è solo mascherato di autonomia.

*Pietro Saitta è ricercatore in Sociologia generale presso l’Università di Messina. È autore di numerosi saggi dedicati alla questione urbana e a Messina. Tra i suoi lavori recenti: The Endless Reconstruction (con D. Farinella, Palgrave Macmillan) e Prende le case (Ombre Corte).

 

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