“Siamo entrati nell’era della post-letteratura. Il tempo in cui la visione letteraria del mondo aveva un posto nel mondo sembra davvero finito. Non che l’ispirazione si sia improvvisamente e definitivamente prosciugata. I veri libri continuano ad essere scritti e pubblicati ma non lasciano il segno. Non hanno più virtù educative. La formazione degli spiriti non è più di loro competenza. […] Non solo il presente regna incontrastato, ma si immagina diverso da quello che è. A forza di raccontarsi delle storie, perde completamente di vista se stesso. Gli scenari fantastici che continua a produrre a cascata prendono il posto della letteratura. Neofemminismo semplificatore, antirazzismo delirante, oblio della bellezza a causa del trionfo della tecnica e dell’ecologia, negazione delle contingenze per tutta la durata della pandemia che ci ha colpiti: è così che la menzogna prende piede, la bruttezza si diffonde, l’arte perde la battaglia. È un colpo al cuore”.

Il quadro, quello d’una civiltà letteraria che lentamente sfiorisce, perdendo ogni suo ricamo di beltà, è dipinto dal filosofo francese Alain Finkielkraut nel suo ultimo libro, L’après littérature (Stock editore) – che potremmo tradurre come “Post-letteratura” – del quale non sono ad oggi pervenute edizioni italiane. L’essayiste della Ville Lumière, nel suo saggio, deplora infatti la sconfitta della letteratura, rifugio della pluralità umana, di fronte alle attuali ideologie manichee e semplificatrici, come dallo stesso sottolineato nella recente intervista rilasciata a L’express.

In tal sede il filosofo compiange non la fine dei romanzi, ma quella di un tempo in cui i grandi libri educavano le menti e tutelavano il particolare rispetto al generale. E, a difesa della propria nostalgica posizione, piazza sulla scacchiera due avamposti di particolare qualità letteraria, i suoi scrittori-feticcio, nonché amici, Philip Roth e Milan Kundera. Radicalmente diversi fra loro, entrambi Nobel mancati, puniti dalla giuria di Stoccolma, dimostratasi fin troppo “woke” rispetto ai tempi che avrebbero poi bollato per sempre i due autori come infidi misogini. “Il Nobel dovrebbe essere trasferito – inveisce Finkielkraut – ma dove?”. In effetti…

Dallo scrittore e poeta ceco – autore del celeberrimo, leggermente insostenibile, tormentone-manifesto degli anni Ottanta, portato a spasso dai radical chic come un amuleto, da citare rigorosamente senza averlo letto – Finkielkraut asserisce di aver compreso che il compito del romanziere è quello di elevare la cosa letteraria alla sfera del sapere, senza cadere nella trappola del modernismo, della tabula rasa, ma procedendo con “nuove scoperte sulla strada ereditata”.

Quanto invece allo scatenato autore statunitense, dalla penna decisamente più turgida del cecoslovacco, il letterato parigino narra, nella sua recente opera, alcuni episodi degni di nota che lo legano al compianto amico che “oggi sarebbe condannato per appropriazione culturale”.

Nell’autunno del 2017 – non vedeva Roth dal 2012, anno del suo ottantesimo compleanno – Finkielkraut lo chiama, salta su un aereo e si reca a fargli visita, ritrovando un uomo felice di essersi ritirato dalle scene (nello stesso anno di papa Benedetto XVI, così gli piace pensare), ma in preda alla malinconia del lavoro, a quella battaglia continua che scrivere un’opera comporta dentro di sé, quella lotta intestina a cui, dopo parecchi libri e qualche capolavoro, Roth è ormai aduso. I due amici commentano così lo tsunami mediatico del momento, l’affaire Weinstein e la conseguente nascita del famigerato MeToo. Quel movimento che non ha risparmiato nessuno, da Dustin Hoffmann a Kevin Spacey, Roman Polanski, Woody Allen, fino ad arrivare ad Elie Wiesel, un holocaust survivor, tutti accusati delle più svariate combinazioni di molestie sessuali.

“Una sera di novembre 2017, in un appartamento nell’Upper West Side di Manhattan, Philip Roth ed io abbiamo preso atto, sbalorditi, di questo evento epocale: la shoaizzazione della mano sul culo. Eravamo sbalorditi, ma non del tutto sconcertati” così commenta l’intellettuale francese ne L’après littérature.

D’altronde, come potrebbe, Roth, essere sconvolto dalle nefandezze partorite dalla causa femminista? Lui stesso, nel 1974, aveva pagato lo scotto di persona, con le scarse vendite de La mia vita di uomo – il labirintico romanzo che gli aveva regalato la reputazione di misogino – reo d’aver ritratto una donna persecutrice, mentre il mondo, ed in particolare quello liberal americano, aveva appena scoperto che le donne sono buone e solo buone, perseguitate e solo perseguitate, vittime e solo vittime.

Pertanto, quale sarà il ruolo riservato alle donne in quella che Finkielkraut definisce post-letteratura?

Probabilmente, nelle storie d’amore, non ci saranno più uomini disprezzati, umiliati, uomini trasformati in cretini e ridotti alla disperazione. Niente più donne prepotenti, machiavelliche, feroci o pazze. Nessuna Medea o Lady Macbeth, ridotte a pure fantasie misogine. “La stupidità avanza a passi da gigante, il manicheismo impone un’unica storia e presto eliminerà il nostro patrimonio letterario da tutte le storie recalcitranti” chiosa infatti l’autore stesso.

Del resto, il suo amico Roth docet. Non è forse, il Coleman Silk de La macchia umana, l’emblema dell’uomo moderno, vittima del perbenismo e dell’ipocrisia del politicamente corretto? Coleman Silk è Philip Roth, è Milan Kundera, è Elie Wiesel, è everyman, allo stesso modo in cui Elena Mitnik è l’università americana, il giurato del Premio Nobel per la Letteratura, il giornale mainstream, il politico democratico, il progressista militante.

Oggi, “sotto la costante sorveglianza degli studenti di vedetta, i professori sono obbligati ad attivare un trigger warning quando si avvicinano a Euripide o a qualsiasi autore che possa offendere la sensibilità di donne, neri, amerindi, musulmani o gentilmente indicati come LGBTQIA +. I maschi bianchi eteronormativi devono comportarsi bene”, scrive Finkielkraut. È il discreto fascino della censura, si inizia con Euripide e si finisce con Roth.

Ma “Roth è il nemico dichiarato di gran parte di quelli che lo lodano” scrive l’intellettuale francese, e per lui, nell’era della post-letteratura, non ci sarebbero più posti disponibili. Maschio, misogino, pornomane, di stretta osservanza eterosessuale, il turbolento romanziere ha sempre dato al sesso un posto centrale nei suoi romanzi – e per questo in America non ha mai ricevuto l’assoluzione con formula piena – senza però mai distaccarsi dal comico, soprattutto nell’onanistico Lamento di Portnoy.

Che comico e porno siano come due facce della stessa lama, lo pensava anche, dalle nostre parti, Carmelo Bene, secondo il quale il connubio trova, nella storia della letteratura, la sua massima espressione nelle opere di Kafka, ritenuto dall’intellettuale salentino “il più grande pornografo e pornomane della storia”. “Kafka è un monumento comico al concetto di porno” diceva CB, che definiva il comico quanto di più asociale e libertino si possa concepire, un concetto totalmente distante dalla commedia.

“Comico e porno hanno ingoiato la mia vita, tutte le mie vite, come un serpente a sangue freddo”

asseriva, sostenendo che il comico è cianuro che si libera nel corpo del tragico, lo cadaverizza e lo sfinisce in un ghigno sospeso. Del resto, basta pensare al suo Lorenzaccio, in cui il tragico è sospeso, non si regge in piedi. Ovviamente, neanche per Kafka ci sarebbe posto, nell’epoca della post-letteratura. Carmelo Bene, ça va san dire, resterebbe fuori categoria, un hors concours.

La verità è che lo stesso Finkielkraut fatica a trovare una poltrona libera, perché, come racconta ne L’après littérature, oltre ai suoi affezionati detrattori, deve fare a pugni anche con quei progressisti talmente instupiditi dai propri dogmi da criminalizzare anche una frase, ironica, se pronunciata nei confronti del tipo umano sbagliato. Nel caso di specie, dopo un siparietto televisivo tra il filosofo e una neofemminista, quattro deputati di sinistra lo hanno denunciato al procuratore della Repubblica, reo d’avere con una battuta, in sostanza, banalizzato il tema della violenza sessuale, nonché inviato a Radio France una petizione per rivendicare l’immediata interruzione del suo programma, Répliques.

Se gli eredi dell’Illuminismo hanno perso il filo del buonsenso, si chiede il filosofo, “la Francia, patria letteraria, sta diventando, per sua sfortuna, una società letterale?”, un paese che si attacca ad una frase, una parola, una bazzecola. Del resto, come ricorda Kundera ne I testamenti traditi, “l’umorismo non è qui da sempre e non è nemmeno qui per sempre”. Se il progressismo ha preso il sopravvento su ogni aspetto della vita, dell’arte e continua a perpetuare l’idea di realizzare il bene nella storia, perseguendo qualsiasi forma d’ironia non conforme a tale modello, scrive Finkielkraut che “Nella terra dei compagni non si scherza con l’emancipazione universale. Non si fa tremare il senso della storia, nemmeno quando si scherza”.

Come salvarsi da questa nuova, censoria, umanità? Forse per mezzo di un approccio bibliomantico alla letteratura non ancora oscurata e soppiantata dalla spazzatura contemporanea. Scrive al riguardo il filosofo parigino:

“È solo attraverso la letteratura che possiamo superare l’abisso che ci separa dagli altri uomini. Non è solo una benedizione, è un miracolo. Io mi rivolgo alla letteratura come altri si rivolgono alla Bibbia”.