La mostra (curata da Roberta Tenconi e Vicente Todoli) non solo è la prima dell’artista in Italia ma è anche la sua più ampia e completa. Può essere percepita come un’unica grande opera caleidoscopica, senza un inizio o una fine, che si dipana in varie articolate narrazioni allo stesso tempo interconnesse e con specifiche valenze di significato. Si possono ritrovare qui influenze dei principali artisti che hanno lavorato con fonti luminose e in particolare con il neon: dai concetti spaziali-ambienti di Lucio Fontana alle installazioni minimaliste con tubi al neon di Dan Flavin, dalle sequenze numeriche di Merz a certi lavori di Bruce Nauman o Joseph Kosuth, fino alle elaborazioni più recenti (Cai Guo Quiang o Olafur Eliasson). Ma Wyn Evans utilizza il linguaggio luminoso in modo originale e molto sofisticato con un’ampia gamma di riferimenti e citazioni alla letteratura, musica, filosofia, astronomia e scienza e anche alla storia dell’arte. Il titolo della mostra «… the Illuminating Gas», è un diretto omaggio al famoso ultimo criptico ambiente realizzato da Marcel Duchamp. E in mostra ci sono anche delle sculture luminose che ricalcano esplicitamente delle forme geometrizzanti del Grande Vetro. La prima suggestiva installazione che si vede all’inizio è Star Star Star/Steer formata da alcune imponenti cilindri verticali di varie altezze con pulsazioni luminose intermittenti. A fare, in qualche modo, da contrappunto sonoro, è Composition for 37 Flutes una singolare struttura sospesa nell’aria, con tubi di vetro trasparenti che funzionano come uno strumento musicale. La parte centrale dello spazio è animata dalla presenza aerea di tredici costruzioni plastiche-luminose della serie Neon Forms (after Noh), che sono una traduzione segnica visiva degli schemi che descrivono i passi, i movimenti della testa, del kimono e del ventaglio degli attori del teatro giapponese classico. Accanto a questa suite «teatrale», si espande con eclatante dinamicità il gigantesco affascinante intrico luminoso di rette e curve delle Forms in Space by Light (in Time) che sembra una dilatazione parossistica dei neon di Fontana.
Quando si arriva in fondo alla navata si esce dal buio e si entra in un vasto ambiente cubico, illuminato dalla luce naturale. Qui l’artista propone un gruppo eterogeneo di lavori. Di carattere, per così dire spaziale-cosmico sono due complesse installazioni, E-C-L-I-P-S-E, e C-O-N-S-T-E -L-L-A-T-I-O-N. La prima è una gigantesca scritta al neon il cui testo descrive in modo freddamente scientifico la progressione temporale di un eclissi di sole in relazione a diverse posizioni geografiche. La seconda è formata da un gruppo di dischi specchianti sospesi nell’aria con dei cavetti che muovendosi riflettono raggi di luce. A questa parte visiva si connette quella sonora che, attraverso delle casse, diffonde un arrangiamento di registrazioni di suoni raccolti con un radiotelescopio. Luce, movimento e suoni entrano in gioco anche in altri lavori come le due coppie di lampadari in vetro di Murano (S-U-T-R-A e Mantra) che emettono una luce intermittente con un ritmo collegato a una composizione al piano composta e eseguita dallo stesso artista. Solamente sonora è invece una colonna immateriale (T-R-A-N-S-F-E-R-E-N-C-E) incentrata sul cambiamento delle frequenze dei flussi audio. In fondo c’è il primo che l’artista ha realizzato con neon. Si intitola TIX3, che non è altro che la parola «exit» scritta al contrario. Un ironico e emblematico segnale contraddittorio di direzione nel tempo e nello spazio.
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