IL PUNTO
I più recenti sondaggi sul voto di novembre in Sicilia – in particolare il lavoro di Demopolis – ci dicono che oggi nell’isola meno di un elettore su due sa come andrà a votare e soprattutto se ci andrà. Certo, le campagne elettorali servono anche a risvegliare l’interesse collettivo, ma solo un tenace ottimista può credere che da Palermo possano arrivare buone notizie per la salute del sistema politico. È una condizione che riguarda tutti, compresi i Cinque Stelle, ma in special modo il centrosinistra, come le cronache descrivono ogni giorno. E qui ci sono due modi di raccontare lo psicodramma che si consuma intorno ai nomi di Alfano, Pisapia, Orlando, Bersani, per citarne alcuni, del candidato Micari e dell’altro candidato Fava. La prima chiave di lettura mette in luce giustamente il grottesco di una vicenda che rappresenta il trionfo della politica attorcigliata su se stessa e sulle proprie formule, incapace di trasmettere all’esterno un’idea chiara di chi vuole che cosa. Nessuno ha ancora capito con chiarezza come finirà il cabotaggio di Pisapia fra il Pd renziano e la sinistra bersaniana in nome di un accorato ma confuso appello all’unità. E nessuno ha compreso quale apporto Alfano riuscirà a fornire alla causa del candidato Micari, visto che una porzione dei centristi è attratta come una calamita dalla coalizione della destra.
Non solo: non è chiaro nemmeno perché si sia creato tanto scandalo intorno alla figura dello stesso Alfano – persino al di là dei suoi demeriti -, considerando che il gruppo del ministro degli Esteri ha fatto parte a pieno titolo della maggioranza a sostegno del presidente uscente Crocetta, proprio come i bersaniani del Mdp. E anche a Roma Alfano ha votato e vota tuttora i vari governi, da Letta a Renzi a Gentiloni, alla pari degli scissionisti del Pd.
Nessuno ha insomma capito granché di questo frullato di “politichese” vagamente masochistico e, salvo sorprese, destinato alla sconfitta. Ma in definitiva la questione interessa a pochi. È forse più interessante l’altro punto di vista. Vale a dire: cosa insegna il rebus siciliano a chi osserva da lontano, in vista delle elezioni generali del 2018? Si possono ricavare almeno tre indicazioni, sempre restando nell’ambito del centrosinistra. La prima è che a Palermo l’unico in grado di tenere in mano il timone si è dimostrato il sindaco Leoluca Orlando. La sua strategia per portare l’intero centrosinistra più Alfano a schierarsi dietro un candidato unico (il docente universitario Micari) aveva senso, anche se finora si è infranta sugli scogli. Si conferma peraltro che nel Meridione il Pd, per esistere, ha bisogno di appoggiarsi a figure locali ben radicate: Orlando in Sicilia, appunto, De Luca in Campania, Emiliano in Puglia (un tempo D’Alema li aveva definiti «cacicchi»). Tuttavia per raggiungere un livello accettabile di coesione non bastano i notabili.
Occorre qualcuno in grado di esercitare una leadership nazionale nel nome della quale imporre una sintesi. Ed è il secondo aspetto.
Renzi sogna un’alleanza da Alfano a Pisapia, una sorta di “partito della nazione” aggiornato, una formazione con una corrente di destra, una di sinistra e in mezzo il gruppo dirigente fedelissimo al segretario. Purtroppo per lui finora è mancata del tutto la capacità di sintesi, che vuol dire anche capacità di guida. Renzi ha il controllo ferreo del suo partito, ma non sa – e fino a ieri nemmeno ha voluto – costruire una coalizione.
Inseguiva il mito del partito piglia-tutto, impossibile ora in un sistema proporzionale. E, del resto, nemmeno adesso si è convertito fino in fondo all’idea delle coalizioni, le quali per avere una logica dovrebbero essere sostenute da una legge elettorale che premia la vincente. Ecco perché la Sicilia rischia di essere un amalgama mal riuscito, un’eccezione ambigua e poco esportabile.
Terzo elemento, il caso Pisapia.
L’ambizione è notevole e degna di nota: dare contenuti brillanti a un centrosinistra rinnovato e inclusivo. Sfortunatamente l’ex sindaco di Milano è troppo debole per un disegno così vasto. Machiavelli diceva che il mediatore deve essere più forte, non più fragile dei contendenti a cui si rivolge. In Sicilia ha fatto tutto Orlando, come si diceva, ma al di là dello Stretto, soprattutto nel Nord, Pisapia dovrà dimostrare quella volontà di leadership che finora gli è mancata. Il suo progetto è a un passo dal fallimento, anche perché gli scissionisti del Pd sono carichi di rancore, ma non si capisce quale sia la loro visione di società alternativa a Renzi. Senza programmi chiari, che non ci sono, è poco utile avvitarsi intorno a giochi politici stucchevoli del tipo Alfano sì/Alfano no. O anche Pisapia sì/Pisapia no.
Non solo: non è chiaro nemmeno perché si sia creato tanto scandalo intorno alla figura dello stesso Alfano – persino al di là dei suoi demeriti -, considerando che il gruppo del ministro degli Esteri ha fatto parte a pieno titolo della maggioranza a sostegno del presidente uscente Crocetta, proprio come i bersaniani del Mdp. E anche a Roma Alfano ha votato e vota tuttora i vari governi, da Letta a Renzi a Gentiloni, alla pari degli scissionisti del Pd.
Nessuno ha insomma capito granché di questo frullato di “politichese” vagamente masochistico e, salvo sorprese, destinato alla sconfitta. Ma in definitiva la questione interessa a pochi. È forse più interessante l’altro punto di vista. Vale a dire: cosa insegna il rebus siciliano a chi osserva da lontano, in vista delle elezioni generali del 2018? Si possono ricavare almeno tre indicazioni, sempre restando nell’ambito del centrosinistra. La prima è che a Palermo l’unico in grado di tenere in mano il timone si è dimostrato il sindaco Leoluca Orlando. La sua strategia per portare l’intero centrosinistra più Alfano a schierarsi dietro un candidato unico (il docente universitario Micari) aveva senso, anche se finora si è infranta sugli scogli. Si conferma peraltro che nel Meridione il Pd, per esistere, ha bisogno di appoggiarsi a figure locali ben radicate: Orlando in Sicilia, appunto, De Luca in Campania, Emiliano in Puglia (un tempo D’Alema li aveva definiti «cacicchi»). Tuttavia per raggiungere un livello accettabile di coesione non bastano i notabili.
Occorre qualcuno in grado di esercitare una leadership nazionale nel nome della quale imporre una sintesi. Ed è il secondo aspetto.
Renzi sogna un’alleanza da Alfano a Pisapia, una sorta di “partito della nazione” aggiornato, una formazione con una corrente di destra, una di sinistra e in mezzo il gruppo dirigente fedelissimo al segretario. Purtroppo per lui finora è mancata del tutto la capacità di sintesi, che vuol dire anche capacità di guida. Renzi ha il controllo ferreo del suo partito, ma non sa – e fino a ieri nemmeno ha voluto – costruire una coalizione.
Inseguiva il mito del partito piglia-tutto, impossibile ora in un sistema proporzionale. E, del resto, nemmeno adesso si è convertito fino in fondo all’idea delle coalizioni, le quali per avere una logica dovrebbero essere sostenute da una legge elettorale che premia la vincente. Ecco perché la Sicilia rischia di essere un amalgama mal riuscito, un’eccezione ambigua e poco esportabile.
Terzo elemento, il caso Pisapia.
L’ambizione è notevole e degna di nota: dare contenuti brillanti a un centrosinistra rinnovato e inclusivo. Sfortunatamente l’ex sindaco di Milano è troppo debole per un disegno così vasto. Machiavelli diceva che il mediatore deve essere più forte, non più fragile dei contendenti a cui si rivolge. In Sicilia ha fatto tutto Orlando, come si diceva, ma al di là dello Stretto, soprattutto nel Nord, Pisapia dovrà dimostrare quella volontà di leadership che finora gli è mancata. Il suo progetto è a un passo dal fallimento, anche perché gli scissionisti del Pd sono carichi di rancore, ma non si capisce quale sia la loro visione di società alternativa a Renzi. Senza programmi chiari, che non ci sono, è poco utile avvitarsi intorno a giochi politici stucchevoli del tipo Alfano sì/Alfano no. O anche Pisapia sì/Pisapia no.
La Repubblica – STEFANO FOLLI – 07/09/2017 pg. 1,27 ed. Nazionale