Philip Guston, la paura dell’incappucciato

Nella nota di pochi giorni fa – firmata dai quattro direttori -che accompagnava l’annuncio della sospensione della mostra si legge chiaro il timore per i ricorrenti incappucciati, un riferimento evidente ai membri dell’organizzazione razzista Ku Klux Klan, che popolano le tele di Guston. Presenze simboliche e politiche. Esplicite eppure ambigue. Di sicuro pitture roventi nell’America ad alta tensione razziale, dopo l’uccisione di George Floyd durante un interrogatorio da parte della polizia di Minneapolis e le proteste di massa che sono seguite. “Dobbiamo riconoscere che il mondo in cui viviamo è molto differente da quello in cui abbiamo iniziato a collaborare a questo progetto cinque anni fa” hanno scritto i quattro direttori. Insomma, in uno scenario in cui vengono assaliti simboli del passato – da statue a edifici, legati a schiavismo e razzismo – anche l’arte contemporanea corre il rischio di diventare campo di battaglia. E la Tate e gli altri hanno avuto paura che le loro sale potessero diventare luogo di scontro tra estremismi.

Per sfuggire alle polemiche politiche e alle manifestazioni i musei si sono infilati però in una perfetta tempesta culturale. “L’ironia è che, se c’è mai stato un momento giusto per esporre le immagini di Guston, allora è proprio questo” ha accusato Michael Auping, che aveva curato una retrospettiva dell’artista al Museo di Arte moderna di Fort Worth, in Texas. “Si avverte incertezza e paralisi in molte istituzioni culturali, riguardo a tutti i cambiamenti a cui assistiamo. Non sanno dove andare, hanno paura a prendere posizione e di essere criticati”. Mark Godfrey, tra i curatori della mostra rimandata per conto della Tate, ha sconfessato i direttori sostenendo di non essere stato coinvolto nella decisione. E ha definito paternalistiche le preoccupazioni che i quadri di Guston possano essere malintesi dal pubblico. In parole piane: vigliaccheria culturale.

Philip Guston fotografato nel suo studio a New Yotk alla fine degli anni '50 (Credits: Estate of Philip Guston)
Philip Guston fotografato nel suo studio a New Yotk alla fine degli anni ’50 (Credits: Estate of Philip Guston)

Il mondo della cultura in America sembrava avere più coraggio nel 1931 quando il diciottenne Guston (nato a Montreal, si era trasferito con la famiglia a Los Angeles da bambino) collaborò a un murale per raccogliere fondi per la difesa degli Scottsboro boys, nove afroamericani dell’Alabama accusati di violenza sessuale su due bianche. Il dipinto viene cancellato quasi subito dalla polizia. I primi incappucciati fanno la loro prima apparizione un anno prima, in “Drawing for conspirators”. Ritorneranno intorno al 1968, dopo la stagione dell’espressionismo astratto, come presenze ambigue, disturbanti e ironiche. Quasi monumentali, influenzate dalla metafisica di De Chirico. Accompagnano e seguono gli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy, le rivolte nei ghetti. Un periodo perfino più caldo di quello di oggi.

Opera giovanile del 1930 di Philip Guston, la prima con figure incappucciate. (Credits: Whitney Museum)
Opera giovanile del 1930 di Philip Guston, la prima con figure incappucciate. (Credits: Whitney Museum)

“Guston era ebreo e gli ebrei erano presi di mira dal Klan. Questo lo portò a una pittura d’attivismo” sostiene l’artista Trenton Hancock che su “Drawing for conspirators” ha scritto un saggio nel catalogo.  Nessun possibile equivoco dunque? Non del tutto. Ci sono gli adepti del Klan ritratti in atteggiamenti di nonchalance e gli autoritratti dell’artista da incappucciato. Lo aveva dichiarato lo stesso Guston: “Sono autoritratti… mi percepisco come fossi dietro al cappuccio… l’idea del male mi ha sempre affascinato… ho quasi cercato d’immaginare come potesse essere vivere all’interno del Klan. Cosa si proverebbe a essere cattivo?”. La provocazione è forte. Ci si può leggere l’estensione dell’idea di Hannah Harendt sulla banalità del male. La critica dipinta non basta, l’arte per Guston diventa un’assunzione di corresponsabilità e impegno. Che l’artista si era preso e i direttori dei quattro musei hanno rimandato a tempi più quieti.

www.lastampa.it