Peter Stein racconta la storia d’amore tra Goethe e la Sicilia

 

La sera del 29 marzo 1787 Johann Wolfgang Goethe si imbarca a Napoli alla volta della Sicilia. È l’epilogo del Viaggio in Italia, il salto verso l’ignoto del sommo poeta, che all’isola guarda come la meta ultima della sua ricerca della classicità e di sé stesso. Due secoli e quasi quattro decenni dopo un altro grande intellettuale tedesco, il regista Peter Stein, ha seguito passo per passo il percorso siciliano di Goethe insieme con una troupe cinematografica. Con Goethe, Stein ha un rapporto antico e consolidato. Ama dire che per «un tedesco della mia generazione confrontarsi con lui è una cosa normale, per i più giovani non so». Il monumentale progetto del Faust integrale, 22 ore di spettacolo divise in due giorni consecutivi realizzato nel 2000, è lì a testimoniarlo. Ora, il legame diventa ancora più stretto. Diretto dallo stesso Peter Stein, scritto da suo nipote Markus, prodotto da Zivago Film in collaborazione con Rai Cinema e il sostegno del Mibact e della Regione Sicilia, Sulle tracce di Goethe in Sicilia è un documentario di 90 minuti, che verrà presentato al Torino Film Festival. Il regista ne parla in anteprima con «la Lettura» in questa intervista esclusiva.

Perché rifare il cammino di Goethe in Sicilia?

«Mi è sembrata una sfida interessante tentare di seguirne i passi usando una telecamera per fissare delle immagini vive. Anche Goethe aveva fissato le immagini ma con un’altra tecnologia: infatti aveva con sé un pittore, Christoph Heinrich Kniep, che disegnava i paesaggi e i luoghi osservati. Io ho fatto due cose: rivisitare i posti dov’è stato e cercare di capire che ruolo ha avuto Goethe nel suo tempo e quale reazione hanno oggi i siciliani su questo personaggio, con il quale hanno un rapporto profondo. Il suo nome è dappertutto in Sicilia, nelle strade, nelle piazze o nelle targhe che ricordano i palazzi e le stanze dove ha dormito anche una sola notte. Sembra esserci una storia d’amore segreta tra l’isola e il poeta. E i siciliani che hanno approfondito l’argomento sanno che Goethe in un certo senso ha inventato una sua personale Sicilia o comunque ne ha rappresentato una particolare versione, quasi onirica. Ricordiamoci che scrive il Viaggio in Italia trent’anni dopo averlo compiuto e dirà di aver “sognato” per la maggior parte di esso».

Quando viene in Italia Goethe è in crisi artistica e personale. Che cosa cerca, soprattutto in Sicilia?

«Cerca il senso della sua missione come artista. In Sicilia pensa di trovare la Grecia stessa. Il suo sguardo è rivolto soprattutto al passato. Non che il moderno non gli interessi: per esempio a Palermo, spacciandosi per un giornalista inglese, indaga sulla vicenda della famiglia di Cagliostro, al secolo Giuseppe Balsamo. Ma è chiaro che a mancargli, tenendo presente che viene da un buco come Weimar, una piccola e sudicia città della lontana Turingia, è l’immagine concreta della classicità, lui che vuole rinnovare l’arte e la letteratura all’insegna del classicismo. Non gli può bastare leggere Winckelmann. Tenete presente che il Grand Tour fino a quel momento ha escluso Magna Grecia e Sicilia, considerate troppo pericolose. Lui invece vuole trovare la Grecia, non solo l’arte ma anche la natura, i paesaggi simili a quelli dove Omero ha raccontato le sue storie. L’approccio iniziale con la Magna Grecia è traumatico: la prima tappa infatti è Paestum, una delusione per Goethe, nulla a che vedere con il suo ideale. Ma anche a Segesta non trova un riscontro sul piano del rapporto tra architettura classica e natura. Solo a Girgenti, davanti al tempio della Concordia può scrivere che si è vicini al suo gusto. A Taormina poi è come un’epifania, non gli interessano tanto i ruderi quanto il paesaggio nel quale è incastonato il teatro».

Cosa produce in Goethe l’esperienza siciliana?

«Si sente più sicuro, vivo, ha le idee più chiare, si ritrova. Può affrontare l’ultima fase della vita artistica con una nuova svolta, riavvicinandosi al romanticismo. Scrive il Faust 2, opera assolutamente romantica dove riesce a giocare con cose che prima ha combattuto, come gli scherzi. Goethe dice che dopo il viaggio in Sicilia gli sono cadute le bende dagli occhi, vede la classicità viva e reale, si rende autonomo dalle opinioni degli altri sul classicismo antico, può cercare la sua strada. La crisi era determinata dal fatto che lui aveva raggiunto il successo e la celebrità, ma quello che faceva non gli piaceva più, temeva di ripetersi, gli pesava la sua funzione pubblica a Weimar, dov’era secondo solo al primo ministro. Forse pesavano anche delusioni erotiche. Certo non gli riesce tutto: vorrebbe scrivere una tragedia ispirata a Nausicaa, la fanciulla che si innamora di Ulisse, che prima la illude e poi parte lasciandola, mentre lei si suicida. Ma non ha preso appunti e rinuncia».

Si è sentito un po’ Goethe in questo viaggio nel tempo?

«Non esageriamo. Ne ho seguito le orme, certo, ma con Goethe, con certe sue posizioni sono spesso in conflitto, lo ammiro ma non sono in adorazione. Ho cercato di capirne meglio intenzioni e motivazioni, ben oltre la lettura del testo. Per esempio, quando lui da Girgenti lascia la costa e si avventura nell’interno dell’isola per andare direttamente a Catania, è una sfida con sé stesso, era stato molto malato da adolescente e vuole affrontare l’esperienza fisica di un viaggio duro. Tenga presente che è quasi in incognito per scelta. È già celebre in tutta Europa, specialmente per via del Werther. Non ha voluto una protezione pubblica nonostante possa farlo in quanto a Weimar è ministro. Inoltre, evita di pernottare in alberghi o monasteri e spesso dorme in stalle o stanze di fortuna, quasi cercando il pericolo. Ecco, se si legge solo il testo, questo non si capisce».

Nel film lei si sofferma molto sulla visita al santuario di Santa Rosalia. Cosa colpisce il protestante Goethe?

«Goethe detestava il cattolicesimo: i suoi riti fastosi, esagerati e privi di gusto offendevano il suo rigore protestante, ma anche il suo personale ateismo. Eppure, quando va al santuario sopra Palermo e vede la scultura in marmo della giovane vergine sdraiata, vestita d’oro, rimane affascinato, stordito, è quasi sessualmente attratto da quell’immagine al punto da non riuscire ad andarsene, sente perfino una messa prima di tornare nella grotta a dare un ultimo sguardo alla santa. Anche questo mi ha aiutato a capire meglio la sua complessa personalità».

Ha detto che a Palermo si spaccia per un giornalista inglese. Perché usa questo stratagemma?

«Esatto. Vuole indagare sulla vita di un avventuriero come Cagliostro e quindi deve comportarsi come Cagliostro. C’è una volontà di s’encanailler, sperimentare qualcosa di nuovo. Si accorge che la famiglia Balsamo in realtà vive poveramente e vorrebbe offrire un aiuto in danaro, ma quelli rifiutano. Poi però quando torna a Weimar manderà loro lo stesso dei soldi».

Com’è stato per lei, per Peter Stein, il viaggio in Sicilia?

«Insieme a mio nipote e a Rino Sciarretta abbiamo trascorso molto tempo insieme. Ogni sosta è stata un grande guadagno sia artistico che emotivo. Trascorrendo del tempo in compagnia di Goethe viaggiatore, penso di essere riuscito ad approfondire il mio rapporto con il poeta e con la Sicilia. È stato un modo per conoscere meglio l’isola da un punto di vista artistico ma anche rispetto a ciò che rimane della riflessione sulla vita del poeta».

Quali sono i suoi prossimi progetti?

«Purtroppo, nessuno. Solo un po’ di insegnamento. Il 15 marzo scorso a Parigi abbiamo fatto la prova generale di un progetto cui tenevo molto, tre atti unici di Cechov. Ma con il lockdown è andato tutto in fumo. Avevamo rinviato tutto a settembre, ma di nuovo la pandemia ci ha bloccati, i teatri sono stati chiusi di nuovo».

È una decisione giusta?

«Dipende. Penso che il teatro sia il luogo meno pericoloso per infettarsi, si può fare benissimo con controlli severi all’ingresso, distanziamento, regole igieniche. Ma è difficile fare accettare l’idea che i teatri siano aperti e i ristoratori debbano chiudere. C’è anche una questione di giustizia. Trovo idiota chiudere i teatri ma lo capisco. Dobbiamo comportarci come gli altri. È triste. Il problema del nostro settore però è sottovalutato: se mettiamo insieme teatro, lirica, musica sinfonica, cinema e concerti rock rappresentiamo una forza economica enorme, che in parte si autofinanzia. Ora, se tutte queste persone, parlo di oltre un milione e mezzo di persone, non hanno un aiuto è finita, perché tranne la minoranza che lavora nei teatri stabili, nessuno di noi ha un reddito fisso. In più se tu non lavori nel tuo mestiere è un danno non solo per te stesso. Un attore che non può stare sul palcoscenico non è più tale, è niente. Nei mesi di inattività si perdono conoscenze, creatività artistica, e questo è pericoloso, è un impoverimento per ogni Paese».

Che cosa manca a una società quando le manca il teatro?

«La maggioranza della popolazione che finanzia il teatro non va a teatro. Chi frequenta i teatri è sempre una minoranza, ma l’esistenza del teatro ha un valore in sé, anche per chi non lo frequenta. Si creano esperienze nuove, che migliorano la capacità di giocare con noi stessi. Inoltre, si conservano valori artistici del passato, fondamentali se non vogliamo essere delle società che mangiano, comprano o navigano su internet soltanto. La creatività di una società si misura non solo sull’Intelligenza artificiale ma anche sul modo in cui si atteggia verso l’arte. E il teatro è una forma di arte viva e attiva, fatta di persone in carne e ossa: sarebbe gravissimo per tutti perderla».

 

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