La prossima tornata referendaria del 20 e 21 settembre si avvicina, tra l’indifferenza e l’ignavia che ormai caratterizzano ogni fatto pubblico in Italia. Avendo in grande odio i politologi, non tedieremo i lettori con raffinate e inutili analisi sui sistemi politici, il mono-bi-tris e quater-cameralismo, e altre pasquinate che appassionano tre gatti in croce. Vorremmo invece concentrarci su un altro aspetto, ritenuto più importante nella vanità generale della farsa nazionale. Il fronte del NO, di cui fa modestamente parte chi scrive, ritiene la riduzione del numero dei parlamentari un attacco alla democrazia: abbattendo il totale dei deputati e senatori, si impone una barriera all’ingresso tale da mantenere a Roma pochi e grandi magnaccia clientelari, gli unici in grado di poter disporre di un consenso tale da superare le forche caudine post-riforma. Inoltre, un minor numero di onorevoli aumenta ancora di più il potere delle accozzaglie trasformistiche che si suol chiamare partiti, i quali possono utilizzare i noti metodi dei collegi blindati e dei listini per sistemare agevolmente i salvati e condannare i sommersi alla durezza di una vita normale. Su un piano più generale, infine, svilire l’istituzione parlamentare può condurre su un piano inclinato pericoloso: a furia di sfoltite, infatti, si può giungere all’ottimo paretiano per cui conviene chiudere tutto e affidare armi e bagagli a pochi tecnici dai pantaloni consunti, in ginocchio verso Bruxelles. A che serve la politica oggigior
E questo è il punto su cui vorremmo angariare il povero lettore. Le ragioni prima esposte sono degnissime, e ci spingono idealmente a barrare NO nel segreto dell’urna. Ma a che pro? Probabilmente, a nulla. Occorre infatti essere chiari, e non fare la fine dei cavalleggeri polacchi contro i Panzer. La democrazia, almeno la forma socialdemocratica conosciuta in Europa dal 1945 fino, tutto sommato, alla fine degli anni Novanta, è morta e non resusciterà con un semplice tratto di lapis. Il voto può avere un valore testimoniale, ma chi ricorda più lo tsunami del referendum costituzionale del 2016? Chi ha colto le evidenti aspirazioni popolari per la salvaguardia della Costituzione e, anzi, la sua applicazione dopo decenni di svilimento costante? Nessuno. E le conseguenze delle elezioni politiche del 2018? Il sostanziale rifiuto della maggioranza del Paese rispetto alla deriva eurocratica, malamente espresso da Lega e Cinquestelle, in cosa si è tramutato se non in palliativi patetici e trasformismi così assurdi da condurre l’ex avvocato del bobolo a dux dell’emergenza sanitaria, dopo un ribaltone clamoroso degno della peggior repubblichetta delle banane. Potremmo continuare, per ore, a elencare le offese gravissime inflitte alle masse da squallidi faccendieri e arricchiti miserabili. Il problema, infatti, non è di sistema ma di uomini: con campioni del tipo Casalino, Zingaretti e Bonomi qualsiasi combinazione riuscirebbe sghemba, abortita, perché in presenza di incapaci spocchiosi e prepotenti non si governa uno Stato, lo si distrugge. Su questo vogliamo attirare l’attenzione, e cioè sul fatto che antropologicamente questa è una Repubblica esausta, come quei casati nobiliari infettati dai matrimoni tra cugini primi. Vincerà il NO? Sai che guaio. Loro resteranno sempre in sella, e tutto sarà come prima.
Per questo, quasi per disperazione, da un lato vorremmo che vincesse il Sì, perché riteniamo vergognoso che ogni deputato degli ultimi trent’anni sia stato oggettivamente inutile, se non dannoso, pasteggiando a champagne e caviale mentre l’Italia veniva travolta dalla miseria. Sarà un discorso demagogico, ma non sarebbe in fondo un gran dramma evitare che l’esercito dei Paola Taverna, Gennaro Migliore e Mariastella Gelmini finiscano finalmente di offendere con la loro presenza le istituzioni repubblicane. Tornando lucidi, tuttavia, il problema assume una veste diversa e più ampia. Noi voteremo NO, e invitiamo tutti i lettori a fare altrettanto, perché vogliamo rovinare il gioco delle élite per quanto possibile. Insieme, però, vogliamo ricordare che la democrazia non è un gioco cartaceo, non si esaurisce nell’urna. Essi prosperano perché io, tu, noi, tutti siamo ignavi, disinteressati, fermi, convinti che al massimo verrà un giorno un uomo della Provvidenza a salvarci – vero senatore Salvini? – e a riportare tutto com’era, in un patetico nostalgismo da bacheca salviniana con i calippi a cento lire. Non ci interessa votare ogni cinque anni, se poi dell’esito si fa carne di porco. Non ci interessa vivere in uno stato nominalmente vivo quando ogni giorno, sulla nostra pelle, vediamo le conseguenze della sua putrescenza. Non vogliamo più mediocrità, conformismo, sottomissione, svilimento. Non vi crediamo più, non vi sopportiamo più.
Pertanto, caro lettore, senza partecipazione cosciente di ognuno alla vita della Patria non si potrà mai ottenere nulla, ed è questo l’obiettivo di fondo dell’antipolitica dominante in Italia: distruggere ogni legame tra i cittadini e la Repubblica, atomizzare le masse fino a triturarle negli ingranaggi della macchina. Votare NO può essere così solo un primo, timido passo, per una cesura di ben altra portata. Perché partecipazione vuol dire rivendicare la propria dignità di uomo che da suddito diventa cittadino, che sente l’orrore della società divisa in classi e pretende giustizia sociale, conscio del fatto che senza eguaglianza sostanziale non può esservi vera democrazia. Il senso profondo della Costituzione, racchiuso tra gli articoli 1, 3 e 49 consiste nel nesso profondo di caratteristiche in grado, esse sole, di dare alla democrazia quel carattere rivoluzionario, eternamente dialettico, che spogliandola delle ipocrisie borghesi la consegna ai lavoratori, agli sfruttati, agli ultimi, virilmente decisi a essere uomini e non più servi. Se non cambiamo noi, se non rompiamo le catene morali e materiali della schiavitù, meriteremo di crollare insieme alle macerie italiane. Chi non si ribella merita evidentemente le condizioni in cui pena.